Perché
boicotto Israele
GIANNI
VATTIMO
Confesso:
sono uno dei pochissimi che finora hanno firmato un appello per il
boicottaggio dell'invito di Israele come ospite d'onore alla prossima
Fiera del Libro di Torino. Se tutti i grandi giornali italiani fanno
a gara nel deprecare questo boicottaggio, vuol dire che la minaccia
dell'antisemitismo non è poi così incombente. Ma non di
questo credo si debba discutere. L'invito a Israele - che, a quanto
ne so ma forse sbaglio, ha sostituito improvvisamente quello che era
già stato avviato per avere ospite quest'anno l'Egitto - è
oggetto di un boicottaggio politico, perché politica è
l'iniziativa della Fiera. Chi ci accusa, noi boicottatori, di voler
«imbavagliare» gli scrittori israeliani, o è in
mala fede o non sa quel che si dice.
Sono argomenti terribilmente
simili a quelli usati nella recente polemica sull'invito al Papa a
tenere la lezione magistrale alla Sapienza di Roma: anche qui sarebbe
in gioco la libertà di parola, il valore supremo della
cultura, il dovere del dialogo. Dialogo? Nel caso della Sapienza, si
sa che razza di dialogo era previsto. Il Papa sarebbe stato ricevuto
come il grande capo di uno Stato e di una confessione religiosa, in
pompa magna, così magna che persino la semplice possibilità
di una manifestazione di pochi studenti contestatori a molte
centinaia di metri di distanza lo ha fatto desistere dal proposito.
Questo caso di Israele alla Fiera è lo stesso. Chi boicotta
non vuole affatto impedire agli scrittori israeliani di parlare ed
essere ascoltati. Non vuole che essi vengano come rappresentanti
ufficiali di uno Stato che celebra i suoi sessant'anni di vita
festeggiando l'anniversario con il blocco di Gaza, la riduzione dei
palestinesi in una miriade di zone isolate le une dalle altre (per le
quali si è giustamente adoperato il termine di bantustan nel
triste ricordo dell'apartheid sudafricana), una politica di continua
espansione delle colonie che può solo comprendersi come un
vero e proprio processo di pulizia etnica. E' questo Stato, non la
grande cultura ebraica di ieri e di oggi (Picchioni e Ferrero hanno
forse pensato di invitare alla Fiera Noam Chomsky o Edgar Morin?) che
la Fiera si propone di presentare solennemente ai suoi visitatori,
offrendogli un palcoscenico chiaramente propagandistico, certamente
concordato con il governo Olmert (che del resto sta offrendo lo
stesso «pacchetto» anche alla Fiera del libro di Parigi,
due mesi prima che a Torino).
Nei tanti articoli che ci
sommergono con deprecazioni e lezioni moralistiche sul dialogo
(andate a parlarne a Gaza e nei territori occupati!) e la libertà
della cultura, non manca mai, e questo è forse l'aspetto più
vergognoso e francamente scandaloso, il richiamo all'Olocausto.
Vergogna a chi (magari anche essendo ebreo, come quelli che si
riuniscono nell'associazione «Ebrei contro l'occupazione»)
rifiuta di accettare la politica aggressiva e razzista dei governi di
Israele. Chi boicotta la Fiera di Torino boicotta «gli ebrei»
(PG Battista) e dimentica (idem) i rastrellamenti nazisti e lo
sterminio nei campi. Uno studioso ebreo americano, Norman G.
Finkelstein, ha scritto su questo vergognoso sfruttamento della Shoah
un libro intitolato significativamente L'industria dell'Olocausto (in
italiano nella Bur). Proprio il rispetto per le vittime di quello
sterminio dovrebbe vietare di utilizzarne la memoria per giustificare
l'attuale politica israeliana di liquidazione dei palestinesi.
Nessuno dei «boicottatori» nega il diritto di Israele
all'esistenza. Un diritto sancito dalla comunità
internazionale nel 1948; proprio da quell'Onu di cui Israele, negli
anni, non ha fatto che disattendere con arroganza i richiami e le
delibere.