Dal
MANIFESTO, l'editoriale di Mariuccia Ciotta:
Israele
è responsabile della condizione disumana in cui vivono i
palestinesi, ha costruito ghetti circondati da un muro che li
rinchiude, ha attuato un regime di apartheid. L'ex presidente degli
Stati Uniti d'America, Jimmy Carter, lo ha scritto nel suo libro
Palestine: Peace, Not Apartheid, presentato in un lungo tour nelle
maggiori università americane. Carter ha sostenuto nei suoi
commoventi incontri che la politica Usa di appoggio al governo
israeliano è sbagliata.
Che
quest'appoggio americano a Tel Aviv istiga all'odio e alla guerra, e
che il risultato saranno solo macerie e morte. Per Israele e per i
palestinesi. Applausi, ma anche insulti, accuse di antisemitismo,
boicottaggio...
Jonathan
Demme ha video-raccontanto il giro americano dell'ex presidente e il
suo documentario Man fron Plains è stato di fatto ancora
boicottato all'ultima Mostra del cinema di Venezia. Nessun giornale
ne ha parlato, tranne il manifesto.
Carter
e Demme cercavano di dire, con un libro e con un film, che non c'è
altra via se non quella della mobilitazione generale per fare
giustizia in quella zona del mondo. Nessun'altra via se non la
sollevazione degli individui e l'intervento degli stati, dell'America
e dell'Europa per invertire la corsa al massacro dei palestinesi, e
allo stesso tempo per garantire a Israele il diritto di esistere.
Tutto il resto è guerra. Perciò siamo per il dialogo e
contro il boicottaggio della Fiera di Torino.
Siamo
per il dialogo politico e culturale, non vedo distinzioni, gli
scrittori non sono «buoni» in quanto tali, fuori dal
conflitto, anzi ne sono immersi. E mi sembra superfluo argomentare
sulla voglia di propaganda del governo israeliano: se c'è,
facciamogliela passare. O sulle presunte gaffe della Fiera (che
avrebbe cercato di rimediare alle polemiche invitando «dopo»
gli scrittori palestinesi) e tanto meno sull'occasione che porta
Grossman, Oz, Yehoshua e gli altri scrittori a partecipare, cioè
il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele.
E'
una buona occasione per discutere dell'attualità. Se no, si
vuol dire che avendo un governo di cui nulla condividiamo, Israele
deve cessare di essere? Che la sua esistenza, essendosi accompagnata
con la negazione della terra ai palestinesi, è da mettere in
causa? Che il dialogo con quel paese, quale che siano le distanze
conflittuali, debba essere precluso?
Non
abdicheremo a noi stessi, la loro memoria è la nostra e da
quella memoria nasce l'indiscutibile diritto del popolo degli ebrei -
al di là del concetto di «nazione» che in
quest'epoca ha sempre meno senso - ad avere una terra dalla quale
nessuno può cacciarli. E' una cosa che ci riguarda. E' una
cosa iscritta nell'esperienza mentale di ognuno di noi,
inscindibile.
Certo, uno
stato, due popoli, due diaspore. «Musulmano» era chiamato
l'ebreo da giustiziare nei lager. E' per questo che abbiamo la
necessità di accogliere la bellezza del racconto di sofferenze
inflitte e subite. La passione di chi, scrittori palestinesi e
israeliani, rifiuta il dialogo è, paradossalmente, già
un incontro. Disperato. Ma dice che non vogliamo stare soli e
muti.
Il boicottaggio della
Fiera del libro è pessima sotto il profilo morale, anche per
le persone scelte come bersaglio, e inammissibile sotto il profilo
politico. Ci sottraiamo perciò agli schieramenti di chi
compila le colpe di una o dell'altra parte, moltiplicando i nemici.
Quali siano le colpe, e in ragione di esse, andiamo a Torino, non
solo per sprigionare la forza delle idee contro quella delle armi, ma
per riconfermare il nostro mandato che ci distingue dalla cultura
della morte.