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Medio Oriente » TUNISIA, UN PAESE IN MOVIMENTO  
TUNISIA, UN PAESE IN MOVIMENTO
di Mirca Garuti


Oggi in Tunisia tutto si muove, tutto si trasforma in nome di una libertà ritrovata il 14 gennaio dell’anno scorso dopo un mese di lotte nelle piazze.
La Tunisia dopo 75 anni vissuti sotto il protettorato francese e 55 anni con due soli Presidenti della Repubblica ed un solo partito politico al potere, sta cercando la strada di una vera democrazia per poter ricominciare a vivere.
Dopo l’indipendenza dalla Francia (20/03/1956) Habid Bourghiba  divenne il primo Presidente e da subito intraprese una serie di riforme con lo scopo di arrivare a creare una sovranità nazionale e di modernizzare il paese attraverso l’istruzione e l’emanazione del “Codice dello Statuto Personale”. Con questo codice le donne ottengono alcuni diritti, come il divieto della poligamia, l’abolizione del dovere di obbedienza della sposa, la sostituzione del divorzio al posto del ripudio, il diritto di voto e più tardi, nel 1965, la legalizzazione dell’aborto. Bourghiba però allo stesso tempo si costruiva un’immagine di leader unico benefattore e protettore legittimo del popolo tunisino, lasciando pochissimo spazio per una politica partecipativa. Il tempo non ha solo minato la salute del Presidente ma anche lo sviluppo del paese. Nel 1978 criticando gli accordi di Oslo divenne la sede della Lega Araba e più tardi quella dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, mentre aumentava sempre più la corruzione ed il clientelismo. La lotta poi per la sua successione ed il rafforzarsi del suo autoritarismo portarono, a metà degli anni ’80, ad una grave crisi di governo. Il lungo regno di Bourghiba iniziato, quindi nel nome del liberalismo e della laicizzazione dello stato, si avviava verso la conclusione nel decadimento del capo dello Stato ed in una grave crisi economica e sull’orlo di una guerra civile. E’ a questo punto che entra in gioco anche il nostro paese, come si legge su ”LaReppubblica.it" il 11/10/99: “Fu l'Italia a costruire nel giro di un paio di anni la successione indolore fra Bourghiba e Ben Ali. Furono Craxi, Andreotti, il capo del Sismi Martini, il capo dell'Eni Reviglio a garantire una rete di sicurezza al "golpe costituzionale" che Ben Alì mise a segno la notte fra il 6 e il 7 novembre dell'87. La storia è lunga, molto più complicata e molto meno sordida di quanto sembri. Craxi fece una visita in Algeria in cui quelli si dissero pronti a invadere la Tunisia se Bourghiba non avesse garantito la stabilità del suo stesso paese. Gli algerini volevano fare qualcosa per tutelare il gasdotto Algeria-Italia, che nel tratto finale attraversa la Tunisia. L'Italia non poteva tollerare una guerra fra Algeria e Tunisia, ma non poteva neppure permettere che Bourghiba degradasse al punto da rendere insicura la Tunisia La notte del 6 novembre 1987 in Italia il presidente del Consiglio era Giovanni Goria, il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il leader del Psi Bettino Craxi. Sette medici firmarono un referto (Colpo di stato medico)  che certificò l'incapacità di Habib Bourghiba. Il primo ministro-generale Zin el Abidin Ben Ali divenne presidente della Tunisia. L'Italia offriva aiuto all'Algeria, e in cambio chiedeva aiuto all'Algeria nel controllo del terrorismo in Italia". 
Tutto questo, ancora una volta, per mantenere un proprio vantaggio economico (fornitura di gas ad un buon prezzo) non ci sono stati scrupoli nel mettere in atto  un’ingerenza straniera ai danni di un popolo nel più totale silenzio dell’Europa.
E così è iniziata la dittatura di Zine El-Abidine Ben Ali. Il partito di Ben Ali, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD) ha dominato quindi la scena politica tunisina dal 1987 al 2011.


Il 17 dicembre 2010 inizia la rivolta del popolo tunisino contro il suo dittatore. L'effetto scatenante di una situazione,  da molto tempo insostenibile, è stata la morte di Mohamed Bouazizi. Un giovane laureato che per vivere e mantenere la sua famiglia, faceva l'ambulante abusivo di frutta e verdura a Sidi Bouzid.  Quel giorno la polizia comunale gli aveva sequestrato la merce, Mohamed ha protestato, gli agenti hanno reagito  con uno schiaffo in faccia. L’umiliazione ricevuta è stata troppo grande, l’ultima di una lunga serie e, così il suo grido di dolore, di rabbia, d’impotenza si è trasformato nel gesto estremo di darsi fuoco nella piazza principale del suo paese. Mohamed Bouzizi è il simbolo di questa rivoluzione e racchiude in sé l’enorme disperazione di tutti quei giovani tunisini che hanno rischiato e rischiano tutt’ora la loro vita in mare per raggiungere un paese dove poter sopravvivere e quelli che compiono gesti disperati contro la brutalità del potere.
La risposta a tutta questa disperazione si concretizza in una serie prima di tutto di sit-in, poi di manifestazioni e moti di piazza del tutto spontanee che scuotono molte città  di questa regione poco sviluppata della Tunisia. La paura che, fino a questo momento,  aveva immobilizzato il popolo, ha trovato la forza e l'energia di trasformarsi, dissolvendosi in un onda  travolgente contro la frustrazione per la disoccupazione, la corruzione dei poteri, l'indifferenza delle autorità  e per la mancanza di libertà d'espressione e di stampa. La reazione della polizia è molto dura. L'8 ed il 9 gennaio rappresentano la fase più nera: 25 morti, ma la forte repressione non ferma i dimostranti, anzi la protesta si amplifica e si diffonde nelle altre città  arrivando fino alla capitale Tunisi ed alle altre regioni del litorale più dinamiche da un punto di vista economico. Tutto questo dimostra la forza che può avere il proletariato, quando sconfitta la paura di una dittatura, lotta, malgrado le centinaia di morti lasciati sul terreno, fino ad arrivare finalmente a scuotere il potere.
Dal 17 dicembre al 10 di gennaio scorso i suicidi tra i giovani sono saliti a cinque.  Il 13 gennaio Tunisi è presidiata dalle forze speciali dopo una prima notte di coprifuoco. Questa giornata è stata particolarmente pesante, il numero dei manifestanti uccisi da colpi da arma da fuoco sarebbe più di 30 in tutto il paese, di cui circa la metà a Tunisi. Secondo testimonianze alcuni tiratori occupavano le terrazze e abbattevano deliberatamente le loro vittime. Ben Ali tenta un discorso in arabo tunisino nell’estremo  tentativo di riavvicinarsi al popolo, condannando l’uso delle armi nelle repressioni e promettendo di arrestare i responsabili, di concedere  libertà di stampa, d’espressione e democrazia. Ma tutto continua come prima!

   

Dégage!” (vattene!) è divento l’urlo della piazza.
Senza bandiere, senza parole d’ordine, la mattina del 14 gennaio inizia con una marcia davanti al teatro municipale verso il ministero dell’Interno. Il raduno diventa sommossa al grido “Adunata, adunata, fino alla caduta del governo!” E’ decretato lo stato d’emergenza. L’esercito controlla l’aeroporto e lo spazio aereo è chiuso. Alla sera un uomo, correndo lungo Avenue Bourguiba, grida: “Ben Ali è fuggito, il popolo tunisino è libero! Il popolo tunisino non morirà, il popolo tunisino è sacro!”.
Ben Ali è il primo dirigente di un paese arabo a dover lasciare il potere sotto la pressione della piazza.
Il capo del Parlamento Tunisino, Foued Mebazaa presta giuramento come presidente ad interim della Tunisia ed il 19 gennaio pronuncia le sue prime intenzioni: “M'impegno a che il governo di transizione conduca una rottura totale con il passato”.
Migliaia di tunisini scendono di nuovo per le strade a Tunisi, Sidi Bouzid, Regueb, Kasserine per pretendere il ritiro di tutte le figure del vecchio regime. La piazza della Kasbah  torna a riempirsi di manifestanti accampati sotto la sede del governo ed una frangia più radicale contesta il mantenimento della carica di primo ministro Mohammed Ghannouchi che, alla fine di febbraio, annuncerà le proprie dimissioni. Il 9 marzo il tribunale di prima istanza di Tunisi annuncia la dissoluzione del RCD fondato da Ben Ali il 27 febbraio 1988.
   
Dalla conclusione dei quei movimenti, poco si è saputo ed il silenzio mediatico ha impedito di comprendere senza strumentalizzazioni cos'è stata la rivolta tunisina di quei giorni e cos'è oggi la nuova Tunisia liberata. A metà luglio 2011 a Tunisi c'è stata infatti una nuova ondata di manifestazioni, fermata in modo violento dalla polizia. Qualcuno ancora chiede perché continuano a scendere in piazza dal momento che la dittatura è  finita. La libertà senza una vera giustizia sociale non può essere considerata una vera libertà .

La redazione di Alkemia prova a dare una testimonianza diretta di quello che sta avvenendo in quel paese del dopo elezioni, per la prima volta democratiche, e che ha visto uscire trionfante il partito En-Nahdha di ispirazione islamica.


Un viaggio, organizzato da “Itinerari Paralleli” (http://nena-news.globalist.it/?p=16274), non solo tra i partiti, movimenti politici e di opinione per sentire i loro progetti e programmi, ma sopratutto con il popolo della capitale Tunisi e di Regueb, nel cuore contadino del paese.
Incontriamo i ragazzi che hanno avuto la capacità di far arrivare la voce della rivolta tunisina fuori dai suoi confini con la loro diretta partecipazione alla rivoluzione di un anno fa.  La tv Al Jazeera, i blogger tunisini hanno contribuito, infatti, tramite la diffusione d’immagini e di video, a far arrivare nelle case di tutti i cittadini arabi e non, i valori reali di questa rivolta, delle richieste, della loro disperazione, mettendo in crisi l’analisi della loro protesta che la stampa occidentale la riduceva solo ad una ribellione di carattere economico da placare con un po’ di concessioni.


Li troviamo però arrabbiati, frustrati, combattuti tra di loro, si sentono quasi intrappolati in un dibattito interno sulla laicità del governo. Non vogliono ripercorrere vecchi schemi, vogliono solo costruire una loro democrazia interna. Uno di loro ha partecipato direttamente alle rivolte di Kasserine e, ad oggi, racconta che nessuna loro richiesta riguardante una speranza di lavoro o nuovi stimoli culturali ha avuto una risposta positiva. Un altro riporta il fatto che la situazione odierna nel bacino minerario di Gafsa, relativa alla mancanza di chiarezza nel criterio delle assunzioni,  è praticamente rimasta uguale a quella degli avvenimenti del 2008.
Tutta questa regione ha subito una forte  marginalizzazione certamente voluta, ma, proprio da qui la rivoluzione è arrivata fino a Tunisi nei suoi quartieri popolari. Questi ragazzi ci tengono a voler sottolineare che “non è vero che il tutto è nato dal niente”, è nato, invece, dal movimento della Kasbah.
La rivoluzione ha aperto uno scenario dalle mille sfaccettature , tutti i partiti da quelli di sinistra a quelli religiosi vogliono far parte della costruzione di una nuova Tunisia unica e democratica. Il tema principale sul quale tutti, dal mondo arabo a quello occidentale, puntano gli occhi, è quello legato alla laicità del paese dove il partito religioso islamico, tenuto fino allo scorso anno bandito dalla vita pubblica, è stato sdoganato. La Tunisia non è per tradizione  
uno stato islamico, non c'è nessun pericolo che possa quindi diventare uno stato musulmano nel modo in cui noi occidentale lo intendiamo.

  

Le ultime  elezioni del 23 ottobre scorso hanno infatti visto la vittoria del  partito En-Nahdha (Partito della Rinascita) di formazione islamica, con 89 deputati su 200, dentro la nuova Assemblea Costituente. Tollerato nei primi anni di dittatura di Ben Ali, la repressione nei confronti dei suoi militanti diventa molto forte a partire dal 1989, anno in cui il suo fondatore Rached Ghannouchi si esilia a Londra.

Dal 1990 al 1995 furono infatti 30.000 i membri di questo partito ad essere imprigionati e torturati. En-Nahdha viene legalizzato ai primi di marzo scorso. La sua presenza durante la sommossa popolare è moderata, ma ora rappresenta la parte vincente che il popolo vuole vedere governare  insieme però alle altre forze politiche e, per questo, è importante quindi ottenere il consenso di tutti e far sì che l'Assemblea Costituente costruisca la nuova costituzione. Nell'incontro che abbiamo con il suo referente Rached Ajmi Lavorimi viene ribadita l'importanza dei rapporti con l'Italia, per lo più commerciali, con la speranza di poterli incrementare con nuove e migliori relazioni bilaterali. Continuano a sostenere che sono per uno stato laico, che vogliono una democrazia e non una teocrazia e che questo è un governo di riforme e di alleanze.  Si presenta  in una struttura nuova e moderna con uno staff ben organizzato e qualificato, anche per il sostegno economico del Qatar. Si presentano con la coordinatrice dell'Ufficio Culturale che ribadisce con forza l'importanza del  ruolo della donna all'interno del partito che, oggi, sente veramente di poter esprimere il suo diritto di vivere nel sociale e che il maschio è considerato un patner e non più un conflitto. Per En-Nahdha, afferma Rached Ghannouchi, essere laici non significa essere contro la religione, lo stato deve assicurare a tutti gli stessi diritti, ognuno ha il diritto di scegliere un proprio comportamento di vita, la loro politica è indirizzata verso i valori morali e la giustizia, la religione ha la funzione di dare un apparato morale. L'importante è quindi salvaguardare la libertà personale.
Il loro leader spirituale, afferma inoltre che il partito islamico ha eletto 42 donne sulle complessive 49 dell'Assemblea Costituente ma, questo risultato, va sottolineato, è stato possibile grazie al sistema elettorale adottato, quello delle liste bloccate in cui si alternavano i rappresentanti dei due sessi, e non per una scelta politica ben precisa.
Per il momento il partito islamico En-Nahdha, con le sue affermazioni, cerca di rassicurare sia il suo popolo e sia il mondo esterno, dichiarandosi di far parte dell'Islam moderato.
Il ricercatore Pierre Vermeren dichiara “ esiste una sensibilità islamica molto forte in seno alla popolazione: i discorsi religiosi, morali o moralizzatori, si nutrono della denuncia della corruzione e dei comportamenti economici mafiosi. Il terreno è molto favorevole e la Tunisia è sottomessa, come tutti i paesi della regione, all'ideologia veicolata dai media del Golfo”.
Quello che però corrisponde alla verità è che oggi i Tunisini che si riconoscono nella religione aumentano sempre più e lo si può notare dal numero crescente di donne che portano il velo (oggi sono circa il 30%).

Questo fenomeno ci viene confermato da Monia Benjemia - portavoce dell'Associazione delle donne democratiche tunisine - che esiste da più di 20anni e lotta per il miglioramento della donna all'interno di un codice di famiglia. In Tunisia non esiste la poligamia ed il ripudio, ma la situazione femminile è molto difficile. Non le troviamo contente, si sentono molto preoccupate per un governo ancora molto conservatore, forse più di prima. Da anni reclamano una legge specifica sulla violenza della donna. Si interrogano sul perchè molte donne hanno iniziato a mettere il velo, una sottile linea che divide il confine dove inizia il loro diritto di scelta  e dove finisce invece il dovere di ubbidire a vecchi retaggi culturali. Sotto il regime di Ben Alì il velo era vietato, lo stato dittatore era fortemente laico, oggi, con il partito En-Nahdha al potere, la società maschilista tunisina si sente autorizzata ad esprimere il proprio sentimento religioso.
Il diritto al divorzio e di voto, ottenuto nel 1956 e quello all'aborto nel 1965, (prima quindi che in Italia!) non mette le donne tunisine al riparo di una forte discriminazione nella loro vita sociale.
Ovunque si vada, la strada per una vera parità di diritti per la donna è sempre molto lunga e tortuosa.
Monia ci fa presente che un altro elemento preoccupante è l'interpretazione dell'art. 1 della costituzione: "La Tunisia è uno Stato libero, indipendente, sovrano, la cui religione è l'Islam e la cui lingua è l'arabo. Il suo ordinamento è quello repubblicano", ad oggi l'islam è considerato la religione della Tunisia e non dello stato, ma domani? Potrebbe diventare la religione dello Stato anche senza dover arrivare all'applicazione della Sharia. Avvertiamo quindi una forte disillusione nella loro voce anche perché avevano sperato, nella composizione dell'assemblea costituente, una maggiore partecipazione laica.


Anche per i partiti di sinistra comunista il risultato delle elezioni del 23 ottobre scorso per la formazione dell’Assemblea Costituente non è stato positivo, anzi negativo, pochissimi deputati eletti ed si dichiarano ora tutti amareggiati per essersi presentati divisi.
Dalla data storica, 14 gennaio 2011, sono stati creati tanti nuovi partiti, più di 63, secondo le cifre comunicate dal ministero degli interni tunisino. La voglia quindi di creare una nuova società e la sensazione di una ritrovata libertà spinge ad unirsi. All’inizio in un modo convulso, senza darsi una precisa organizzazione, poi successivamente ci sarà la fase nella quale diventa quasi obbligatorio, dopo un’attenta analisi, creare delle alleanze strategiche.

Parliamo con il Pcot, Partito Comunista dei lavoratori nato nel 1986 come un nuovo partito fondato in clandestinità. Il suo segretario Hamma Hammami afferma subito che quello che è successo in Tunisia è stata una vera rivoluzione perché aveva l’obiettivo di arrivare al potere politico, ma, questo è solo l’inizio di una lunga battaglia perché il vecchio sistema è ancora presente attraverso i rapporti sociali ed economici e si sente la mancanza di una coscienza ed il progetto politico esistente non è chiaro.
Le elezioni hanno avuto un risultato deludente a causa dei deboli rapporti di forza, per il sistema elettorale vigente, per il finanziamento esterno del Qatar a favore di En-Nahdha, per la corruzione ancora presente nella capitale e per il peso dell’Alleanza Atlantica sul paese. Il movimento En-Nahdha  ha gestito i seggi, di conseguenza anche gli elettori e la campagna elettorale è stata rivolta contro il partito comunista. Dove c’erano scontri, era colpa del partito ed il partito voleva togliere la proprietà delle case ed era contro la religione, di conseguenza la metà degli elettori, la fascia giovanile, non è andata a votare.
L’analisi cruda del risultato elettorale evidenzia la necessità di dovere preparare il partito alla seconda fase in questo processo di cambiamento del paese, anche perché il governo attuale non ha ancora la capacità di gestire la situazione odierna. La Tunisia ha molto sofferto per le posizioni dei governi conservatori europei (Francia, Spagna, Italia, Belgio) e naturalmente quelli degli Stati Uniti che hanno sempre sostenuto a livello politico, militare ed economico le dittature del paese. Durante l’egemonia di Bourguiba, tutte le correnti di pensiero, i partiti ed i sindacati  hanno subito forti repressioni, carcere e torture  e ci sono stati numerosi massacri, come quello dello sciopero generale del 1978 dove in un solo giorno furono uccise 400 persone. Nella guerra del Vietnam Bourguiba aveva sostenuto l’America.

C’è poi l’El-Ettajdid che si trova all’opposizione e rappresenta la sinistra moderata.
Il loro obiettivo è quello di costruire un largo coordinamento democratico del centrosinistra per potersi  presentare uniti alle nuove elezioni,  parlare di costituzione e recuperare quel 1.300.000 di elettori rimasti senza rappresentanza per il fallimento delle recenti elezioni. Riafferma l’importanza del sindacato all’interno di questo percorso che dovrà essere coinvolto, come per l’enorme massa giovanile, presenti nelle manifestazioni, presidi e sit-in, ma assenti nelle forme strutturali, per creare un forte fronte unico in alternativa alla maggioranza odierna. La necessità di sviluppare questi rapporti con i vari movimenti di sinistra è riconosciuta anche dal movimento Al Watad, movimento patriottico nazionale di sinistra democratica, che ha come riferimento politico Antonio Gramsci e che incontriamo subito dopo.

Il portavoce del movimento Sig. Chokri Belaid sottolinea infatti come l’alleanza di destra spinge i movimenti di sinistra a dover trovare un’intesa e che la rivoluzione ha liberato la capitale nazionale dalla morsa di famiglie mafiose e dalla burocrazia interventista. Non nasconde la sua paura per un ritorno in Italia di una forma di fascismo verso le politiche sociali rivolte alla questione “immigrati”. Uniti quindi anche contro un razzismo dilagante in tutta l’Europa.
Il dibattito si gioca, continua Belaid, all’interno dell’Assemblea Costituente sulla visione sociale della Costituzione con la speranza di avere anche l’aiuto del sindacato che, dalla sua nascita, è sempre stato di sinistra e visto come un rifugio democratico.
I tre punti fondamentali che questo movimento  intende portare avanti con l’aiuto delle altre forze politiche di sinistra si riassumono nei  diritti economici e sociali – diritti civili e donne  e lo sviluppo. Tutto è in trasformazione, è in atto un processo rivoluzionario con sviluppo attivo e passivo e revisionista, il capitale sta cercando nuovi alleati. La Tunisia è sempre stata, anche sotto dittatura, una regione acculturata con una alta tradizione intellettuale espressa attraverso il teatro, la musica e il cinema, nonostante non sia stata capace di oltrepassare i suoi confini. Oggi invece si pone una questione diversa: la cultura sta cambiando, prendendo sembianze islamiste e creando un nuovo tipo di “cultura estranea” alla società tunisina, proveniente invece dal Medio Oriente. Un cambiamento anche nel comportamento a livello quotidiano e nel vestire. Oggi, per esempio, accade che il più grande campus universitario della Tunisia è chiuso da più di un mese, la facoltà di lettere è chiusa per le manifestazioni dei salafiti e giornalisti, attori, sale cinematografiche, registi sono spesso osteggiati ed accusati di tenere comportamenti troppo trasgressivi. Nello stesso momento però esiste una cultura giovanile che ha scelto nuovi strumenti d’espressione, come graffiti e musica Rap per esprimere il loro rifiuto di ogni tentativo di controllo. Si deve infine prendere atto della debolezza di tutte le forze di sinistra e dell’aumento invece della destra nel mondo, e come diceva Gramsci, in una fase di crisi economica, se non c’è una risposta progressista, il popolo tende a spostarsi a destra verso una religione.

A sinistra non ci sono solo i partiti tradizionali, all’orizzonte si profila anche un nuovo movimento all’avanguardia che non vuole essere un partito ma uno strumento di unità, si tratta della Rete Destourna.

Il leader di Destourna, Jaouhar Ben Mbarek conferma che la situazione odierna è meno gloriosa di un anno fa, è un momento molto difficile specialmente da un punto di vista economico e il dibattito che oggi si trova al centro dell’assemblea costituente non è rivolto alla costruzione di un patto sociale ma solo alla spartizione del potere politico all’interno del nuovo partito costituito. E’ in pericolo la legittimità della rivoluzione ed il suo futuro democratico.
Occorre una presa di coscienza più profonda, avere un programma politico condiviso iniziando dai comitati locali; unire tutte le forze progressiste non solo sotto una simbolica sigla, ma soprattutto con il coinvolgimento delle masse con progetti propositivi.
Il Destourna partecipa a questo cambiamento non per far parte di una futura alleanza, ma per essere una massa critica per evitare gli errori del passato. La loro proposta, che sono riusciti ad imporla all’interno dell’Agenda politica,  è quella di convocare un’assise nazionale tra le forze progressiste democratiche e della società civile per elaborare un progetto politico comune e creare una vera forza politica. Proposta che ha visto però delle resistenze, perché d’istinto s’intende prima, creare la forza politica e solo successivamente queste istanze di elaborazione, mentre il Destourna insiste sul contrario per evitare che questi incontri arrivino dall’alto, mentre invece le trattative devono avvenire a livello locale nelle regioni interne. E’ dalla base e non dai vertici  che si costruiscono le fondamenta per un vero piano unificato.
Le basi locali hanno seguito, malgrado il parere contrario dei loro vertici a Tunisi, l’idea di Destourna e si stanno incontrando ad esempio, a Sfax , Le Kef, e Bizerte. Il Destourna non è un partito politico, ma una rete sociale di cittadinanza che si interessa al bene pubblico, economico, sociale e politico. Tutta la sinistra si è strutturata per andare verso il popolo mentre invece doveva andare con il popolo, perché è questa la differenza rispetto al partito islamico, ed è questo che ha favorito la sua vittoria alle elezioni. I militanti del En-Nahdha sono infatti, a contatto con il popolo con le loro sedi nei quartieri popolari, radicati nei villaggi come parte integrante di questa società che vive ai margini.
L’obiettivo principale quindi di Destourna è quello di capovolgere l’attuale rapporto della sinistra con il popolo, attraverso la costruzione di cellule, di sezioni locali in zone diverse del paese. Essere presenti in modo permanente con attività sociali, economiche, culturali e poi politiche.
La rete Destourna si sta preparando ad un importante appuntamento per il mese di aprile per elaborare una strategia collettiva e, per questo, sta incitando un dibattito interno alle sezioni esistenti, per poter arrivare a questa data con delle precise proposte. Il Destourna conta una ventina di sezioni ed ogni sezione è composta da 50 associati, prima viene creata una sezione e poi sono distribuite le tessere. Ad oggi si contano 16.000 domande di adesione.
La rete Destourna ha presentato un suo progetto di costituzione, interessante e completo, tanto che è stato invitato dallo stesso partito di En-Nahdha ad un incontro per discuterlo. Il loro progetto non parla volutamente di laicità, non chiedono al popolo di aprire un dibattito su un concetto in fondo astratto, ma pur mantenendo l’art. 1 della costituzione tunisina, prevede una  riformulazione  dell’articolo stesso dividendolo in due parti.
Il 1° articolo definisce lo Stato: “La Tunisia è una Repubblica, democratica, decentralizzata, fondata sui principi della separazione dei poteri e del rispetto dei diritti umani”; il 2° articolo “Separare la definizione dello Stato e quella Identitaria”, quindi “il popolo tunisino è radicato nella sua storia che è di appartenenza araba-musulmana e aperta sulle civiltà universali”. Questa separazione, per il Destourna, serve a proteggere il sistema politico e normativo tunisino.


Il nostro viaggio termina a Regueb nella regione circoscritta tra Sidi Bouzid , Kesserine e Tahla dove, invece, tutto ha avuto inizio. Un luogo dove la crisi ha avuto dei contorni ben definiti dall’alta disoccupazione allo sfruttamento. Un sottosviluppo del comprensorio agrario da anni abbandonato dai grandi finanziamenti destinati alla costa turistica. Una società contadina che pur sviluppando un alto livello di formazione delle giovani generazioni, ha subito solo politiche di gestione repressiva della povertà. La rivoluzione ad un anno di distanza non è ancora riuscita a dare delle risposte alle rivendicazioni sociali. Il governo attuale continuando le politiche liberiste della vecchia dittatura non è riuscito a normalizzare il paese, a riportare la calma necessaria a ridare fiducia ad un popolo frustrato frenando l’economia con la conseguenza di un aumento della disoccupazione e dei prezzi.

  

Regueb è un piccolo centro agricolo, non è neppure segnato sulla carta geografica! E’ pieno di giovani, molto attivi e pieni di energia e voglia di fare. Abbiamo partecipato, come ospiti, ad un loro convegno per un progetto agricolo. Giriamo per il paese. C’è il mercato gremito di venditori, compratori e curiosi, sono solari, spesso si mettono in posa alzando due dita in segno di vittoria  per una fotografia. I muri della cittadina portano ancora i segni della rivoluzione, della loro lotta non per chiedere carità, un po’ di pane, ma per chiedere diritti, per una giusta distribuzione della ricchezza e soprattutto, lavoro.

  

 

Ci scambiamo informazioni, discutiamo su come si può fare una cooperazione, come possono essere  commercializzati i loro prodotti per non sprecare tutte le potenzialità del loro paese e soprattutto su come mantenere uno scambio d’informazione giusta e corretta su tutto quello che succede. E’ molto frustrante dover constatare che il popolo tunisino, dopo aver vissuto 56 anni sotto una repressione culturale, oggi ha a disposizione un’immensa risorsa giovanile ma non ha i mezzi per realizzare  i loro progetti. Il governo tunisino ed il partito islamico che oggi lo guida, deve ora dare prova di capacità nel gestire questa situazione e di riportare il paese ad un riequilibrio economico e politico che porti sviluppo, occupazione e libertà. I giovani delle regioni interne hanno sollevato la testa una prima volta, ma  hanno anche così dimostrato che lo possono fare anche una seconda, se fosse necessario.

Questo è l’avvertimento che hanno lanciato alle nuove forze politiche della Tunisia.

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