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Visti per Voi » Big Eyes  
BIG EYES
di Enrico Gatti


Regia: Tim Burton
USA, 2014
Voto: 8


Per dieci anni, Margaret Keane indugiò all’ombra di un imbonitore deciso a vivere da artista vendendo a proprio nome opere di altri pittori. I quadri di Margaret ebbero molto successo, molto più del previsto, e questo anche grazie alla furbizia di quell’uomo che, per sua sfortuna, era anche suo marito. Due Keane quindi, la pittrice e il venditore, la lavoratrice e il sognatore. Un connubio estremamente redditizio, destinato però a scoppiare come una bolla di sapone perché l’artista, la vera artista, realizzerà che la prima, l’unica, vera grande vittima di quella fitta cortina di menzogne altro non era che lei stessa.
L’America color pastello di questo interessante biopic, fa da sfondo ad un’avvincente storia di emancipazione, raccontata con gusto, ironia e ritmo, e capace di valorizzare al meglio le grandi interpretazioni degli attori, sempre convincenti anche quando estremamente sopra le righe. Sì, perché in fondo una sana dose di eccentricità, da un film di Tim Burton, ce la si aspetta sempre. Burton che, coraggiosamente, rinuncia ai suoi manierismi visivi e sceglie uno stile patinato certo, ma non eccessivamente fiabesco. La fiaba la troviamo nella voce del narratore, nei soggetti dei quadri di Margaret, negli occhi deformati che ossessionano la protagonista al supermercato, e forse in quell’unico albero completamente secco, contorto e minaccioso, che si intravede all’inizio del ‘viaggio’. Ma è pur vero che dietro ai suoi rami scuri il cielo è di un azzurro sgargiante, come in fondo sgargiante sarà il futuro dell’adorabile pittrice. La vita a volte supera la fantasia e basta raccontarla per creare le favole più belle. Questo Burton lo sa bene, già dai tempi di Ed Wood, e conosce la forza e la bellezza delle piccole magie della vita. Ovvio, occorre saperle osservare.
Questa ritrovata semplicità, giova ad un regista che spesso rischia pagare l’estrema coerenza e fedeltà al proprio immaginario. Dopo diversi film molto burtoniani, lo splendido Frankenweenie su tutti,  era necessario forse un film di rottura che aiutasse lo stesso regista a riprendere fiato. Un defaticamento utile a recuperare quella sensibilità e quella gioia del puro e semplice raccontare che lo hanno reso uno dei registi contemporanei più apprezzati. Tutto questo poteva avvenire solo con un film come questo; privo dell’ansia da record di incassi, dell’ansia da grande produzione, dell’ansia di dover eguagliare i capolavori precedenti, di dover insomma dimostrare qualcosa.
Il senso, almeno ciò che si percepisce, è quello di un piccolo dipinto, personale, nel quale traspare un grande affetto verso il proprio lavoro, forse uguale a quell’affetto che Burton prova per Margaret, sicuramente uguale a quel sentimento che commuove Margaret nel momento in cui vede maltrattate le proprie creazioni; un’emozione che lega indissolubilmente artista e opera anche quando queste sono ormai lontane nel tempo e nello spazio, come quelle di Margaret, come quelle di Burton.





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