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PRIEBKE: ASSASSINO E BUGIARDO
di Alessandro Fontanesi

Di tutto il baccano assurdo e indegno conseguito con la morte del boia delle Ardeatine Priebke, di tutte le volgari dichiarazioni e la mancanza di rispetto per chi è morto per le precise volontà e finalità politiche del tempo, fra tutte la negazione della storia asserita dal prete lefebvriano che ne avrebbe celebrato le esequie e le insopportabili ipocrite reprimende dell'avvocato difensore, ma soprattutto dopo il suo video auto-assolutorio, sorprende che in tutta questa vicenda non sia stata data voce a chi è stato vittima di un assassino mai pentito. Nessuno ha fatto parlare i partigiani che ancora ci sono, nessuno ha chiesto il sentimento che può aver suscitato nell'animo di chi ha avuto un padre, o un fratello, o un marito trucidato alle Fosse Ardeatine, proprio da quell'uomo che in un testamento video, a distanza di quasi 70 anni, continua a provocare, con la stessa spocchia e la stessa supponenza di allora tipica dei nazisti e dei fascisti.
Non c'è morale in tutto questo, non c'è rispetto, non c'è conoscenza storica, non c'è "pacificazione" di comodo, solo le dichiarazioni insulse di un nazista orgoglioso, che non ha mai rinnegato la sua fede e la sua storia, altro che "tragedia intima" come ha detto in quell'intervista. Priebke è un assassino conclamato, poteva non obbedire agli ordini se davvero provava tanto dolore per la tragedia che i suoi gesti avrebbero contribuito a fomentare. Priebke è un assassino consapevole, perchè a via Tasso non si è mai sottratto a torturare e a seviziare i partigiani e gli antifascisti, avesse avuto rimorsi di coscienza, da uomo, non avrebbe mai partecipato ad un massacro di cui fu innegabilmente responsabile, perchè non serviva un tribunale a confermarlo, la conferma l'ha data la storia. Priebke è un assassino e anche bugiardo, perchè a distanza di 70 anni pretende di scaricare le responsabilità sue e dei suoi camerati, sui partigiani, sui partigiani comunisti di cui ancora oggi prova lo stesso odio sterminatore. La storia dei volantini affissi per Roma, prima e dopo, la storia che i partigiani sapevano della rappresaglia e che per giunta essi avrebbero voluto, la storia degli inermi militari italiani vittime di un attentato partigiano, ma tuttavia che consapevolmente fecero giuramento alle Ss, sono tutte menzogne che la storia smentisce, che i testimoni smentiscono, che i partigiani come Bentivegna hanno dovuto smentire nelle aule dei tribunali, avendo ogni volta ragione.
I nazisti temevano l'insurrezione popolare e si guardarono bene dal rendere pubblico un fatto tanto ignobile e provarono in tutti i modi ad occultare le prove.
Quello dei partigiani fu legittimo atto di guerra, perchè c'era la guerra, la guerra voluta da quelli come Priebke e a cui non si sottrassero in alcun modo, tra tutte le dichiarazioni di questi giorni, questo è un "particolare" macroscopico di cui nessuno pare tener conto, della guerra del nazismo e del fascismo, la guerra che non vollero i partigiani, ma che si trovarono a combattere loro malgrado, forse sapendo che settant'anni dopo ci sarebbe anche stato chi li avrebbe accusati.
Ben altra storia quella della Resistenza, rispetto a quella di chi con un “dubbio” testamento ha continuato a disseminare lo stesso odio di allora, suscitando indignazione e raccapriccio, trovando e neanche tanto, solo la compassione di chi crede che la storia sia un passato ormai chiuso, ma che a ben vedere è ancora tanto presente.

22/10/13


MADONNA DEL POGGIO, SAN GIOVANNI IN PERSICETO (BO)

DOPO MEZZO SECOLO SMASCHERATO IL FALSO STORICO  DELLA STRAGE IMPUTATA FALSAMENTE AI PARTIGIANI



Nell’ottobre del 1962, durante l’aratura di un campo alla Madonna del Poggio a San Giovanni in Persiceto, vennero scoperti nelle terra diversi frammenti di ossa umane.  Affiorarono alla luce due file parallele di sepolture, 34 scheletri in tutto; gli inquirenti, nonostante la delicatezza del ritrovamento, si mossero invece con grettezza e superficialità, facendo scavare con una ruspa. Il giudice istruttore, incurante di ogni altro indizio, ovvero il cranio di un cavallo posto al termine di una delle due file di scheletri ed una lama di ferro senza manico, sentenziò immediatamente che quelle ossa erano recenti, affermando che “altrimenti sarebbero state scoperte prima”. Sugli scheletri  non vi erano tracce di protesi dentarie o interventi medici o chirurgici moderni, eppure nessuno ebbe l’interesse a sottoporre il ritrovamento all’attenzione di un archeologo. Fu invece il parroco del paese ad “indirizzare” con sollecitudine le indagini, quella doveva essere una strage partigiana, nonostante molti indizi facessero capire che si trattava di altro. La sommaria indagine terminò con i “solenni” funerali dei presunti resti dei caduti, mescolati con  i dispersi della repubblica di Salò e l’insinuazione infamante che il responsabile della “strage” fosse l’allora Sindaco di Persiceto, a quel tempo partigiano e fratello di un altro partigiano ucciso dai nazifascisti. La magistratura aprì un’inchiesta contro ignoti per i reati di strage a scopo di rapina e occultamento di cadavere, che si concluse tre anni dopo e manco a dirlo, con sentenza di archiviazione, perché quei reati non potevano essere imputati a nessuno. Il gioco a quel punto era fatto, non potendo dimostrare i colpevoli, ma altrettanto non potendo negare che quella fosse opera dei partigiani nel dopoguerra, la montatura basata sul nulla, poté passare alle cronache e alla storia come “strage di Poggio di Persiceto”, il tutto suffragato da pubblicazione letteraria del 2005, ne “I lunghi mesi del ‘45”. Libro tornato alla ribalta pochi giorni fa, per altri falsi e accuse ai danni di partigiani, non rispondenti al vero. Ma siccome la storia non mente, la messa in scena prima o poi sarebbe stata scoperta e infatti grazie alla ferma volontà e alla perseveranza dell’Anpi di Persiceto che nel corso degli anni non ha mai accettato i continui tentativi di denigrazione alla Resistenza e dopo anni di insistenze, il 23 settembre 2011 la Procura di Bologna ha concesso l’autorizzazione a riesumare quei resti.  I campioni ossei analizzati del Centro di datazione al radiocarbonio di Lecce, sono risultati bel lungi dall’essere quelli fatti credere fin dal 1962, il falso storico era dunque smascherato, con tutto il corollario di insinuazioni infamanti e menzogne ai danni di innocenti. Gli scheletri di Poggio Persiceto è stato provato che risalgono ad un periodo compreso tra l’800 ed il 1100, persone vissute nell’Alto Medioevo in un insediamento nelle vicinanze di San’Agata Bolognese, già identificato dagli archeologi nel 1994, a poca distanza da quello che è invece risultato un cimitero medioevale. Alla faccia dunque degli scheletri “recenti”! Una bufala, la solita menzogna ad uso politico durata mezzo secolo, frutto dell’ipocrita ideologia revisionista e della superficialità, attraverso la quale, durante la guerra fredda e non solo, si cercavano scheletri negli armadi sbagliati, conducendo le indagini in modo altrettanto superficiale e fittizio, senza avvalersi di prove, ma spesso il “sentito dire”. E non sono poche a questo punto le “stragi partigiane” , di cui la vulgata antiresistenziale ne ha fatto una autentica crociata, di cui è lecito domandare l’autenticità.




IL PAESE CHE NON HA VERGOGNA NEMMENO

DEL SUO PASSATO PEGGIORE
Anna Parigi



L'ammiraglio di squadra Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della marina militare italiana si è fatto ritrarre l'11 luglio 2012 mentre riceve dalle mani di due aderenti alla X Mas una targa con lo stemma che la formazione militare in questione ha avuto dal 1943 al 1945, costituito da un teschio con una rosa tra i denti e la scritta "Xa Flottiglia MAS".
Lo stemma, ideato da Junio Valerio Borghese che fu il comandante della formazione sin dalla costituzione, è assolutamente inconfondibile con quello di qualsiasi altro corpo militare e ciò non poteva sfuggire all'ammiraglio Binelli Mantelli, che è oltretutto uno storico profondo della marina, quindi se ne deduce che egli abbia inteso volontariamente onorare la memoria di quella che deve essere considerata una vera e propria organizzazione criminale responsabile dei più atroci crimini nei confronti della popolazione civile italiana in combutta con i nazisti durante l'ultima guerra.
La foto è stata pubblicata dal giornale "La Cambusa" organo dell'associazione "Xa Flottiglia MAS", che ha commentato l'avvenimento con enfasi, sottolineando addirittura la normalità del fatto che il capo di stato maggiore della marina italiana tributi onori ad una tale sigla, che ha alle spalle una storia di morte e di vergogna.

In un paese normale tutto questo non sarebbe vissuto con tanta indulgenza, perché non esiste che il capo di stato maggiore della marina al servizio della Repubblica nata dalla Resistenza s'intrallazzi con una organizzazione che ha rappresentato non solo la negazione più assoluta dei principi di quella lotta di popolo ma che ha significato torture, esecuzioni sommarie, massacri, brutalità, bestialità pari a quelle commesse dai nazisti contro la popolazione civile italiana e non solo. In Germania una personalità tanto rilevante dell'esercito andrebbe mai a rendere gli omaggi alle SS? Proprio no!
Tuttavia bisogna comprendere che cosa fu la decima flottiglia MAS che operò al servizio della repubblica sociale italiana, poichè oggi in Italia non c'è memoria delle "eroiche gesta" della X Mas. Essa trae origine dagli speciali reparti della marina militare italiana che operarono già durante la prima guerra mondiale sugli appena nati motoscafi, "animati" dal motto latino Memento Audere Semper, coniato da Gabriele D'Annunzio  e che significa: "ricordatevi di osare sempre" e "ricordatevi di essere sempre audaci". La "Prima Flottiglia MAS" si costituì nel 1939 partecipando alla prima fase della seconda guerra mondiale come reparto scelto della Regia Marina fino all'8 settembre 1943, quando oltre la metà dei suoi ufficiali che erano rimasti nel territorio controllato dai nazifascisti decise di proseguirne l'attività militare ribattezzandola "Decima Flottiglia MAS", che rimase sotto il comando del capitano di fregata Junio Valerio Borghese e che già comandava la "Prima Flottiglia MAS" dal maggio di quello stesso anno.
Borghese strinse immediatamente accordi con il capitano di vascello Max Berninghaus della marina da guerra tedesca ponendo se stesso insieme alla "X MAS" sotto il comando dell'ufficiale tedesco nell'ambito dello Stato fascista repubblichino ed impiegando la sua formazione sia come forza di contrasto all'avanzata alleata, sia in operazioni dirette contro i Partigiani e contro la popolazione civile che dava loro appoggio, ordinando alla sua formazione militare metodi di repressione di una violenza e ferocia inaudita. Dopo la Liberazione la "X MAS" fu sciolta e numerosi suoi aderenti furono condannati per crimini di guerra insieme al suo comandante e in numerose sentenze il reparto militare venne apertamente definito come una organizzazione criminale, tuttavia nessuno di loro pagò per quanto commesso ai danni del popolo italiano, primo fra tutti lo stesso Borghese, che pochi anni dopo tentò il colpo di stato ai danni della Repubblica.
È chiaro a questo punto che il capo di stato maggiore della marina non dovrebbe più rimanere al suo posto dopo questa chiara, imbarazzante ed intollerabile manifestazione di simpatia per il fascismo,  governo e Presidente della Repubblica hanno il dovere di destituirlo immediatamente.
 
26/11/12


ANTIFASCISMO, RESISTENZA, COSTITUZIONE

La visita del Ministro Riccardi a Casa Cervi avvenuta lo scorso 5 settembre, e durante la quale pronunciò una vera e propria lezione di antifascismo per il XXI secolo, era inserita in una serie di iniziative aventi come scopo principale quello di rilanciare l’antifascismo quale valore e principio di riferimento culturale e politico dell’oggi, dopo che Anpi e Casa Cervi in giugno hanno sottoscritto un documento sull’attualità culturale dell’antifascismo. E questa poteva essere l'occasione per porre l'accento e l'attenzione ad un esponente del governo della Repubblica riguardo a tutte quelle iniziative e manifestazioni spudoratamente fasciste che si stanno susseguendo con sempre maggiore frequenza. Chiedere se l'antifascismo è ancora il valore di riferimento della Costituzione o un residuo museale da seppellire dato le convenienze politiche di chi ambisce a ricostruirsi verginità smarrite da tempo.
Così purtroppo non è stato. Alla completa derubricazione dell’evento da parte di tutti gli organi di informazione, che l’hanno totalmente trascurato, non ne è seguito alcun interesse anche da parte della politica. Trincerata com’è nei palazzi, a riciclare se stessa, tra primarie taroccate, rottamatori, riformismi fini a se stessi, trasformismi, ‘imbellettamenti’ inutili e dilagante corruzione.

ANTIFASCISMO, RESISTENZA, COSTITUZIONE: QUESTI SONO VALORI DA SALVAGUARDARE E ATTUALIZZARE!
L’antifascismo permea la Costituzione in tutto il suo sistema di principi e valori, ma di questo molti cittadini non sono ancora consapevoli, come del resto la maggior parte di quei politici che siedono comodamente sugli scranni dei due rami del Parlamento.
Purtroppo la conoscenza storica e la riflessione sul fascismo, sulle sue conseguenze, faticano a diventare patrimonio comune nel nostro Paese. Permane, invece, una diffusa indulgenza nel giudizio su quell’ideologia che soggiogò non solo l'Italia, ma anche l'Europa. Un susseguirsi di morte e brutalità, fino alle ultime dittature sudamericane, sorrette coi dollari americani.
Un caso, sono gli esempi avvenuti durante l’estate, complici le vacanze, non solo dal lavoro, ma a quanto pare anche dalla ragione, come ha dimostrato il susseguirsi grottesco e vergognoso di provocazioni e manifestazioni, eufemisticamente parlando, smaccatamente nostalgiche per non dire peggio. La vandalizzazione del cippo partigiano alla Lora a Campegine avvenuta ai primi di agosto, le passeggiate romane del boia delle Ardeatine dell’ergastolano Priebke, la costruzione di un sacrario intitolato al criminale fascista Graziani coi soldi della regione Lazio e, per ultimo, lo sfregio di una madonnina votiva a Catanzaro coperta con la foto della madonna risalente al periodo fascista per i ricordare i "martiri" fascisti del posto. Tutto questo in una sorta di indifferenza generale ed in certi casi nel completo menefreghismo delle Istituzioni che, forse per "eccesso" di democrazia, non sanno dare una risposta politica a questo tipo di manifestazioni. Lo Stato, in tutte le sue articolazioni, non può restare indifferente o peggio tollerare organizzazioni e iniziative apologetiche del regime mussoliniano, né consentire espressioni di matrice fascista. Il caso di Fabbrico, giusto per restare a casa nostra, è emblematico tanto che da oltre un decennio viene tollerata e concessa la contromanifestazione di noti fascisti  a margine della commemorazione partigiana del 27 febbraio. E meno che mai è ammissibile che amministrazioni e amministratori locali si facciano promotori e finanzino omaggi pubblici a gerarchi criminali di guerra coi soldi dei cittadini. Oggi, di fronte alla grave crisi economica, è ancor più necessaria una capillare prevenzione dei rischi di soluzioni populistiche e totalitarie. La storia dovrebbe perlomeno insegnare, proprio per saper prevenire le derive a cui già una volta si è andati incontro, che la tutela e la salvaguardia della memoria serve anche a questo. Le Istituzioni pertanto devono impegnarsi nella diffusione di una rinnovata cultura antifascista tutti i giorni e non solo il 25 aprile, per "dovere istituzionale". Bene hanno fatto i sindaci di Campegine, Poviglio e Gattatico ad essere presenti di persona quando sono stati portati i fiori al monumento partigiano della Lora, solo pochi giorni dopo la sua deturpazione. La cultura antifascista si realizza primariamente nella concreta attuazione della Costituzione, a cominciare dallo sviluppo di azioni politiche che rendano effettiva e costante la partecipazione dei cittadini ed il rispetto dei loro diritti elemento insostituibile e qualificante della vita della nostra Repubblica democratica. L'antifascismo è un valore da riscoprire, e non da svilire al prezzo di visioni banalizzanti ed uniformanti, proprio in un momento di grave crisi politica e dei partiti come quello che stiamo attraversando. Tanto per riagganciarsi ad alcune interpretazioni che durante l’estate hanno riempito i giornali,  valgano da insegnamento le parole pronunciate da Saragat nel ricordare Togliatti nel giorno della sua morte: "Togliatti era un avversario implacabile di noi socialdemocratici... era la contrapposizione tra due concezioni del socialismo assolutamente opposte...ma ricordiamo ciò che fu comune e noi e a lui, ciò che fu comune al socialismo democratico ed al comunismo: l'avversione al fascismo... l'antifascismo". Ecco, su questo vale la pena oggi trovare una base di incontro tra quelle forze politiche che paiono ormai insanabilmente divise e assolutamente ‘smemorate’ in tema di antifascismo, proprio alla luce di quelle manifestazioni e di quei fatti sempre più frequentemente offensive per la memoria antifascista di questo Paese. Probabilmente non è la medicina per i mali di una nazione, ma perlomeno iniziare dopo anni di indifferenza a tessere una cultura antifascista viva e non dogmatica, sicuramente sarebbe già un risultato non trascurabile.
 
 
Alessandro Fontanesi
segretario cittadino Pdci
sez. Paolo Davoli "Sertorio"
Reggio Emilia

DOMENICA 7 OTTOBRE, A MARZABOTTO PER NON DIMENTICARE
di Alessandro Fontanesi
Testo Alternativo

Per tre giorni, nei paesi di Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno, il famigerato Reder compì la sua più tremenda rappresaglia. A Casaglia di Monte Sole i nazisti irruppero nella chiesa dove don Ubaldo Marchioni aveva radunato i fedeli per recitare il rosario, venne immediatamente freddato con una raffica. Le persone furono condotte nel cimitero adiacente e lì tutte sterminate a colpi di mitraglia e bombe a mano, fu l'inizio della strage. Una violenza inenarrabile, non fu risparmiato nessuno perché ogni abitante era considerato sostenitore dei ribelli della Brigata "Stella Rossa". A fine inverno sotto la neve riaffiorerà il corpo martoriato del parroco Don Fornasini e con lui, quello del celebre "Lupo", il comandante Mario Musolesi, oggi oggetto della peggior retorica anti resistenziale.
Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l'intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini).
Infine, la ‘morte nascosta’: prima di andarsene Reder ordinò di disseminare il territorio con le mine che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone.
Complessivamente le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno furono 1.830. Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 bimbi di un anno e quindici con meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane. Il 7 ottobre di ogni anno, la memoria di quei fatti verrà rinnovata, in rispetto a quelle persone che pagarono, da innocenti, il prezzo più alto. Quella di Marzabotto è una memoria quanto mai viva e attuale, capace di parlare al presente ed al futuro, poiché dopo 68 anni, per tanti di quegli eventi sanguinosi e drammatici, manca ancora una doverosa e dignitosa giustizia.
Su questi fatti, a prevalere è spesso l'ipocrisia di chi vorrebbe dimenticare e confondere la storia (e gli ultimi vent'anni hanno purtroppo tracciato un solco profondo) derubricando, per convenienza politica, la Resistenza e l'antifascismo a valori minoritari o ‘di parte’ mentre tutti sappiamo bene, che essi sono scritti nella nostra Costituzione.
Non dimenticare Marzabotto è un dovere. E' testimonianza attiva. E' tener fede alle idee di coloro che, per la libertà di tutti, non esitarono ad offrire la loro vita. Oggi, più che mai, occorre ripeterlo, soprattutto alla luce di quanto accaduto in questi giorni. Gli otto imputati nazisti responsabili di un'altra grande strage di 560 civili a Sant'Anna di Stazzema non verranno perseguiti dalla giustizia tedesca per insufficienza di prove.
I ritardi e la lentezza della giustizia per ‘salvaguardare’ la ragione di Stato sono stati una mannaia per la storia di questo Paese. Troppe reticenze, troppe collusioni, troppe ambiguità, e gli interessi della politica che hanno finito per prevalere sempre su quelli delle vittime e delle persone, trovando così un punto d'incontro col presente, che oggi ha certamente altre urgenze. Ma, da parte delle Istituzioni e dei governi di turno, la civiltà ed il buon senso pretendono anche impegni completamente differenti da una insopportabile indifferenza.


Una riflessione sul caso Breivik

di Maurizio Montanari


Farà alquanto discutere la condanna a 21 anni inflitta a Breivik, il mostro del nord Europa, il serial killer che ha scambiato l’isola di Utoya per un parcheggio di un qualunque ‘Mall’ statunitense dove sparare sui passanti. Sano di mente e condannato ad una pena da molti ritenuta mite. Un pluriassassino cinico e feroce, con evidente struttura paranoica e una personalità che ritenere affetta da disturbo narcisisitico di personalità e quanto meno riduttivo.
Una macchina con una facilità impressionante di passaggio all’atto, privo di qualsiasi brandello di senso di colpa, con la delirante convinzione di essere depositario di un qualche ruolo messianico di ‘pulizia’ dell’Europa da ogni infiltrazione barbaro islamica. Questo per quel che attiene alla clinica personale, alla struttura del singolo.
Di queste ovvietà, sono e saranno pieni i telegiornali, zeppi di criminologi, sociologi, esperti del dolore.
Saremmo stupidi se ci limitassimo alla sola clinica del singolo, tenendo chiuso lo studio, specie in presenza di fatti così gravi e così eclatanti.

Breivik è un figlio di questa società attuale, paranoica, impoverita, infastidita della legge e avvezza al capriccio, incapace di indagare le cause profonde del disagio del proprio territorio, che preferisce delocalizzare e individuare nel diverso di turno il capro che le può permettere di rimandare i conti con quello che non va nel proprio corpo sociale. Breivk è un uomo nel bunker: rumina odio per il diverso, per il migrante, per colore e religioni diverse. Nemico di tutto quello che, nel suo malato sentire, non è controllabile e dunque è foriero di disordine.
Ma il ghignante nordico non è estraneo al nostro discorso sociale, e prima lo si metabolizza, meno ipocrisie racconteremo ai posteri.
I disabili ai quali noi fottiamo il parcheggio, i migranti eletti a causa di ogni possibile sventura (dalla crisi economica, alle malattie, agli stupri, al lavoro mancante), i vagoni dei treni disinfettati. I disperati ricacciati a morire nei campi libici, i bambini affetti dalla sindrome di down ai quali è negato l’accesso in alcuni bar. La capillare e pervicace campagna dei media nel tinteggiare ogni abitate del medio oriente come terrorista o amico di terroristi. Breivik ha semplicemente incanalato tutto questo liquame in un canale fognario più ampio, erigendo se stesso a bastione per difendere una presunta e incontaminata civiltà. Breivik ha semplicemente portato al di la quell’odio che scorre sotto soglia, alimentato dalla quotidiana banalità del male. E’ un figlio del nostro tempo sfuggito alla mano del tempo che lo ha generato e costituito, come il Golem della leggenda sfugge al Rabbino..

Nel film GostBusther, i quattro acchiappafantasmi mostrano bene come il mostro distruttore che si aggira per New York, sia in realtà il prodotto di quel fiume nero di odio e malumore che scorre sotto le fondamenta della città. Questo carnefice dal ghigno strafottente, riceve il plauso, le lettere di ammirazione, di tanti piccoli e oscuri carnefici potenziali chè, al riparo nelle loro oscure vite, covano e coltivano i medesimi semi di odio del loro paladino. Himmler era un commerciante di vini, Heicmann un uomo che sarebbe rimasto confuso nella folla per tutta la sua vita. I piccoli boia della guerra di Jugoslavia sono stati per anni banali cittadini malevoli gonfi di odio. Hanno seguito la scia di individui certamente paranoici e assassini, che hanno però incarnato alla lettera e ingrandito come con un pantografo i loro più bassi, veri e nascosti istinti di odio.
La verità dunque non è leggibile in maniera univoca.
Se da un lato la clinica ci dice che Breivik è effettivamente un paranoico delirante, dall’altro egli dice e reca il marchio di una verità. La verità di non essere fuori contesto, sganciato dal legame sociale. Ha un marchio di fabbrica chiaro e identificabile. La verità è quella di essersi fatto portavoce, senza che nessuno lo richiedesse, di un sentire comune che avanza da tempo in Europa. Un sentire violento e fobico, pensiamo all’Ungheria, libero di esprimersi laddove la Legge non ha prodotto quegli anticorpi necessari a mantenerlo isolato e represso. Rintuzzato in corpi sociali più sani, nei quali la Legge individua, incanala e circoscrive queste isole di follia e di odio.
Un odio che non è un elemento alienato dal corpo sociale, anzi ne costituisce un motore essenziale da millenni.

La corte ha detto: è capace di intendere e di volere. La richiesta insistente della ‘garanzia di follia’, dell’etichetta che mezzo mondo si attendeva, è mossa dalle angosce dell'uomo contemporaneo, cresciuto nel mito dell'eterna giovinezza garantita dall'avvento della chimica, e della morte e della vecchiaia come eventi procrastinabili. Si è chiesto vanamente alla psicologia e alla psichiatria di convalidare il tranquillizzante senso comune: quello che vuole il male (malattie, violenze, omicidi) delocalizzato nell’altro (il diverso che in quel momento si trova ad occupare la transitoria posizione del 'barbaro' inteso alla greca). E se la violenza omicida proviene da un nostro simile, deve per forza essere viziato da una ‘patologia’. Uccidere senza un ‘vizio’ di mente non può appartenere al senso comune senza spaventare. Si deve individuare una torsione dell'animo, una turba della psiche. Insomma, qualcosa che ci permetta di non scorgere nell’omicida quella normalità che fa parte di noi.


Un ultimo appunto a quel piccolo e superficiale mondo benpensante che ha subito gridato alla scandalo per la pena poco severa. Ci sono alcune considerazioni che, se analizzate, dovrebbero zittire questo starnazzare giustizialista fuori luogo.
La corte di quel paese ha ritenuto Breivik sano di mente. Ha applicato il massimo della pena che quel mondo prevede. Sono mondi a noi sconosciuti, nei quale il codice penale agisce con lo scopo di reinserire il reo nella società. Il legislatore forse non aveva conosciuto tali mostruosità, o forse si tratta più probabilmente di una società ancora capace di non abusare della diagnosi di infermità mentale.
I soloni che gridano all’ergastolo, dimenticano che con ogni probabilità Breivik sconterà l’intera pena, fatto pressochè sconosciuto in Italia.
La richiesta a più voci di ‘internamento’ (che fa molto populista e molto macho) viene sovente fatta da chi non conosce le conseguenze balzane e disastrose dell’applicazione della ‘clinica’ nel nostro paese. Un paese nel quale con il facile uso della ‘seminfermità’ mentale più di un assassino l’ha fatta franca, vedendo molto prima di Breivik il sole senza scacchi. Il medesimo paese che ancora non riesce, non vuole, non ha il coraggio o lo stomaco di accettare che ancora sono in via di smantellamento gli OPG, ospedali psichiatrici giudiziari, ultima grande vergogna d’Europa. Lazzaretti nei quali rottami umani sono rinchiusi e lasciati abbruttire e poi morire, in molti casi senza colpa alcuna, se non quella di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, in una vita più sfigata e solitaria di quella che avrebbe dovuto essere. Dunque, mentre siamo nella nostre belle piazze a cercare un po’ di fresco, e ascoltiamo un solone locale gridare allo scandalo, chiedendo una pena più severa per il mostro del nord, quando non la pena di morte, provate ad interrogarlo su alcune questioni: cosa ne pensa dei diversi, dei migranti, dei disabili. Delle religioni che non hanno la croce. Di chi è la responsabilità della crisi economica attuale. Indagate se magari, costui non fa parte di quel nutrito gruppo che ritiene che l’Olocausto, in fondo, sia anche un po’ colpa degli ebrei. Se anche lui, chissà, ritiene che in fondo, i palestinesi sono tutti terroristi. Cosa ne pensa della violenza sulle donne, della soppressione dell’altro. Vedrete che, in buona parte dei casi, vi dirà a bassa voce le medesime cose che Breivik, l’assassino, ha pomposamente dichiarato alla corte. Quell’omuncolo col quale parlerete, è una milionesima parte del mostro del Nord.


 


FORUM:

NEOFASCISMO E NEONAZISMO: UN PROBLEMA POLITICO E CULTURALE


Ne discutono:

 

 

 

Guido Panvini, Storico (Università La Sapienza di Roma)

 

 

 

 

 

 

 

Saverio Ferrari, Giornalista 

 

 

 

 

 

 


 

 

Francesco Germinario, Storico (Fondazione Luigi Micheletti)

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Raffaele Mantegazza, Docente di pedagogia interculturale (Università Bicocca, Milano)

 

 

 

 

 

 

 

Filippo Giuffrida - giornalista
 

 

 

 

  

Coordina Paolo Berizzi, Giornalista

  


FORUM:

LEGALITÀ, CRIMINALITÀ COMUNE E MAFIE: UNA QUESTIONE NAZIONALE


Ne discutono:

 

Armando Spataro, Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano

 

 

 

 

 

 

   

Nando Dalla Chiesa, Sociologo (Università Statale di Milano)
Benedetta Tobagi, Giornalista e scrittrice.
Testimonianza di Stefano Biagianti, Coordinatore del Gruppo Antimafia “Pio La Torre”.
Coordina Umberto Carpi, Comitato Nazionale ANPI

Parte 1    Parte 2 


25 APRILE - 1 MAGGIO

GIORNI LUNGHI COME LA NOSTRA STORIA

di Novara Flavio, Ermanno Bugamelli e Alessandro Fontanesi

Nonostante il 25 aprile, festa della Liberazione del popolo italiano, in questi ultimi anni venga portato alla ribalta della cronaca più per le polemiche pretestuose e rivisitazioni infami, piuttosto che per il suo autentico valore storico, morale e politico, il dovere ci impone di mantenere intatta e viva la memoria di tutti i caduti, di tutti quei  martiri della Resistenza che lottando riuscirono a riscattare la nostra nazione dalla servitù domestica fascista e straniera.

Purtroppo oggi non sono pochi gli immemori, gli ingrati, che nel ricordare il 25 aprile leggono in questo la vergogna ed il disonore. Per quanto quei giorni di aprile di 67 anni fa possano sembrare così lontani e per quanto si voglia seppellire la Resistenza sotto il grigiore dell'oblio e dell'uniformità, la grandezza di quei valori hanno ancora oggi un significato autentico. Le tante ingiustizie di oggi, il continuo attacco allo stato sociale, un continuo e progressivo tentativo di smantellamento dei diritti dei lavoratori, rendono quei giorni a noi assai vicini.

Circa mezzo secolo fa, introducendo "Storia della Resistenza Reggiana" di Guerrino Franzini e nel testimoniare ciò che fu la Resistenza, Pietro Secchia così scriveva: "ci si batteva per liberare l'uomo dal bisogno perchè non può esserci vera libertà senza pane, giustizia senza lavoro, non può esserci libertà e giustizia senza lavoro per tutti". Le conquiste che si erano prefigurate con la Resistenza, tradotte in legge nella Costituzione del 1948, che nel suo primo articolo porta perentorio il riferimento al lavoro, dopo 67 anni non solo non trovano attuazione, ma sono palesemente disattese. Il modo con cui il governo sta riformando il lavoro infatti, sostenuto dalla quasi totalità del Parlamento senza distinzione di bandiera, ci riporta drammaticamente ai motivi che spinsero gli italiani a combattere una lotta di liberazione.

In un Paese dove la disoccupazione è una sorta di emorragia ben lungi da attenuarsi, sostenere che tornerà il lavoro comprimendo i diritti e consentendo ai datori di lavoro di licenziare in totale libertà, è una follia. Soprattutto senza neanche cancellare una delle 46 vergognose forme di lavoro precario che affliggono i lavoratori. Questa è una restaurazione in piena regola e un attentato alla Costituzione, altro che riforma del lavoro.

Non è affatto terminato il 25 aprile 1945 ed è facile usare retoriche le parole Costituzione, diritti e libertà in questi giorni in cui si ricorda la Liberazione, un po’ meno quando è ora di mettere in pratica questi valori. Per essere partigiani non basta cantare Bella Ciao su un palco, magari col fazzoletto al collo, essere degni di questa storia significa difendere il popolo o i cittadini ogni giorno, proprio come loro e come quelli che non si sono lasciati attrarre dalle facili scorciatoie. La democrazia va difesa ogni giorno.

E' infatti, dalle vive parole del partigiano Romano Termanini detto “Veloce” della Brigata Scarabelli (Partito d'Azione) che riusciamo a comprendere dai suoi dettagliati racconti non solo la forza che lo ha sorretto in quei giorni ma i valori e i sogni di libertà che hanno animato la scelta di tanti giovanissimi.

Quando abbiamo incontrato quest'uomo nella sua casa non abbiamo avuto per nulla la sensazione di rivolgersi a un vecchio partigiano che vive all'ombra dei ricordi delle sue azioni ma ad un uomo dalla mente vivace, attento e ancora oggi curioso di capire e continuare a lottare per gli stessi valori di quei giorni. Se pensavamo di portargli conforto nell'ascoltarlo alla fine abbiamo compreso che era lui a confortarci, trasferendoci quel vigore necessario ad ogni combattente, ad ogni resistente.

Sopratutto quell'uomo ci ha insegnato a non avvilirci e a non perdere ogni speranza per  il futuro. Del resto, dal Po all'alto crinale dell'Appennino, sulle porte di ogni casolare, sui cippi lungo le strade e nei cimiteri grandi o piccoli che siano, sono scolpiti i nomi e la memoria di quei coraggiosi combattenti per la libertà. A noi il dovere di ricordarli, ogni giorno con la difesa di quei diritti conquistati al prezzo della loro vita.

 

ROMANO TERMANINI racconta:

Audio 1: La sua storia, la militanza attiva e il padre antifascista. Ermanno Gorrieri e Amelio Tassoni. Le azioni clandestine. Il comandante Marcello Castellani, Il comandante Nello. La nascita della rep.ca di Montefiorino e la battaglia che ne ha concluso l’esperienza.

 

Audio 2: Lo stupro di una ragazzina da parte dei fascisti e il suo passaggio alla clandestinità.  Il ruolo dei commissari politici. I partigiani come uomini e cittadini. Arrivo dalla pianura dei SAP.

 

Audio 3: La liberazione di Serramazzoni e la cattura del delatore fascista. La liberazione di Modena. Il salvataggio di due soldati inglesi e di cittadini ebrei dalla deportazione. Azioni di guerra. L’attentato al comandante Armando, il trattamento ai traditori e la Corriera fantasma del dopoguerra.


DEMOCRAZIA PROLETARIA

LA NUOVA SINISTRA TRA PIAZZA E PALAZZI

Questo è il titolo dell'ultimo lavoro di William Gambetta, una ricerca storica su quello che è ha condotto alla nascita del partito di Democrazia Proletaria. Quello che ha rappresentato nella società italiana dopo i tragici fatti del 77'. Un partito, nato sulle ceneri del movimento, che si pose come argine politica tra violenza e non violenza. Caratteristica che in seguito negli anni 80' aprì a nuove idee e gruppi non violenti vicino anche al mondo cattolico. Una posizione non alternativa al PCI ma vicino ad esso.

Ne parlano con l'autore a Reggio Emilia presso la libreria Infoschop:

Mirco Carrattieri – Istoreco

Algo Ferrari – infoschop

Maria Grazia Meriggi – univ. Bergamo

Antonio Lenzi – Zapruder

1° parte

2° parte

14/04/12


FOIBE: UNA QUESTIONE APERTA


Il calendario delle celebrazioni ufficiali della Repubblica Italiana si è arricchito negli ultimi anni di due nuove date: il Giorno della Memoria (27 gennaio) e il Giorno del Ricordo (10 febbraio). Le commemorazioni avvengono in tutto il territorio nazionale con cerimonie ufficiali, dibattiti pubblici, convegni di studio e altre iniziative. Molto frequenti sono i viaggi di scolaresche presso i rispettivi luoghi simbolo. L’impatto delle due ricorrenze sulla collettività è differente: mentre il Giorno della Memoria si svolge, forse troppo artificiosamente, nel commosso ricordo della Shoah, il Giorno del Ricordo è sistematicamente “turbato” da manifestazioni e contestazioni.
Non è solo una questione di destra o sinistra politica di questo paese, come neanche tra fascisti e comunisti reduci da quei tristi giorni. E’ un problema storico revisionista offensivo proprio e soprattutto per quelle vittime e per la nostra democrazia.
Una vicenda che dev’essere affrontata da un punto di vista storico e non politico altrimenti continuerà ad essere solo un capitolo triste e strumentale. La stessa legge n. 32 del 30 marzo 2004 “Istituzione del Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, non è altro che la risposta politica alla legge n. 211 del 20 luglio 2000, che aveva istituito il Giorno della Memoria in ricordo “dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Si tratta di due leggi promulgate da governi di segno politico opposto: il Giorno della Memoria dal governo Amato II (centrosinistra – XIII legislatura) quello del Ricordo dal Berlusconi II (centrodestra – XIV legislatura).
Quello che è avvenuto in quelle zone, ma soprattutto la lettura storica di quei giorni, sono ben spiegate nell’articolo di Marco delle Rose pubblicato dal sito “Puntocritico” che qui riportiamo. Da tempo anche noi chiediamo chiarezza e giustizia senza omissioni politico-storiche, (vedi ndr) ciò che invece, l’altra parte non fa, come ammettere tutte le atrocità commesse dai fascisti italiani in Istria e la volontà politica sostenuta dagli anglo-americani di salvare i gerarchi e massacratori fascisti per costruire un fronte anti sovietico.

 

Revisione storiografica e uso politico della questione delle foibe
di Marco Delle Rose**

Nel corso della seconda guerra mondiale, il Carso e altri territori carsici dei Balcani settentrionali sono stati teatro di battaglie tra nazi-fascisti e partigiani, il cui epilogo è riferito dall’attuale storiografia “ufficiale” italiana alla cosiddetta tragedia delle “foibe”. Di pochi episodi bellici relativi a siti ipogei si conserva però una certa memoria. Tra questi, l’acquartieramento di truppe jugoslave nelle grotte bosniache di Drvar e la distruzione di munizioni germaniche nelle grotte slovene di Postojna (Kempe, 1988). Eserciti convenzionali e partigiani, soprattutto questi ultimi, sono ritenuti responsabili di aver trucidato migliaia di nemici negli abissi carsici. In Slovenia, come in Croazia e nella Venezia Giulia, l’immediato dopoguerra fu “particolarmente cruento, giacché vi giunsero molte formazioni militari avversarie del Movimento di Liberazione Nazionale” sospinte dalle avanzate partigiane e senza possibilità di fuga (Ferenc, 2005). (…)

** Consiglio Nazionale delle Ricerche

10/02/2012


LA BANDIERA ROSSA A CORREGGIO
 di Alessandro Fontanesi*


Fa davvero sorridere il baccano che tre bandiere esposte ad una finestra di Correggio hanno suscitato sulla stampa, tra gli amministratori ed i vigili locali e sono davvero fortunati in quel comune se i problemi che le forze dell'ordine e gli stessi amministratori devono risolvere, hanno una tale "criticità". Sono convinto però che la bandiera che ha più generato discordia ed indignazione sia quella rossa con la falce e martello, poichè le altre due, quella della pace e quella della Palestina, sarebbero passate pressochè inosservate. Ha ragione la signora Agrò, il simbolo della falce e martello, simbolo del lavoro universalmente riconosciuto, con buona pace dei bonzi moralizzatori della storia e le idee che essi rappresentano, il cui contributo al raggiungimento della libertà in questo paese è stato tutt'altro che trascurabile, danno ancora tanto fastidio. Tuttavia è sorprendente la solerzia di un assessore e di un vigile nel farli rimuovere, se rapportata a quanto avviene in quel di Fabbrico ogni 27 febbraio durante il corteo partigiano che commemora la storica battaglia. Quel giorno infatti, provocatoriamente, a contorno della manifestazione di una giornata festiva per decreto del Presidente della Repubblica, vengono sventolati i vessilli del fascismo e della repubblica di Salò da ben dieci anni, con tanto di sfilata, ma chissà perchè nessun amministratore, sindaco, assessore o forza dell'ordine che sia, per un fatto ben più eclatante considerato il contesto in cui avviene, ha mai sentito la necessità di far rimuover quei simboli, i simboli vergognosi del fascismo, condannati dalla storia e dal popolo italiano. E tanto meno non suscita la medesima eco ed indignazione tra gli organi di informazione. Vessilli che ancora oggi offendono quanti parteciparono a quell'evento, che offendono la memoria di chi non c'è più, che offendono tutti i fabbricesi ed i reggiani che credono nei valori della Resistenza. Succede da un decennio, eppure la coscienza di nessuno degli amministratori del circondario non è mai stata scalfita, tanto meno la decenza nei confronti dei loro concittadini, si è tollerato con scuse farlocche, così come è avvenuto quando è stata concessa la sede istituzionale della circoscrizione ovest a Reggio, per il convegno di una associazione smaccatamente fascista. Ed allo stesso modo, sempre gli stessi amministratori, non hanno avuto rimorsi di coscienza quando hanno firmato un documento, dove chiedevano al segretario del più grande sindacato italiano di mettere da parte lo sciopero, strumento di rivendicazione ormai obsoleto e sorpassato. Insomma una bandiera del fascismo la possiamo tenere, ma lo sciopero no?! Cos'è, i "nostri" amministratori non si sentono sufficientemente democratici? Temono che dire no al fascismo sia solo un esercizio di facciata e scalfisca in qualche modo il loro consenso? Oppure sono talmente democratici che ormai hanno altro a cui pensare? Se lo ricordino tutti quanti però, se tutte queste persone hanno gli incarichi che ricoprono, certamente non lo devono a quel fascismo che tanto temono di condannare e certamente nemmeno ad una bandiera rossa, ma a quanti sono morti per le idee che essa ancora rappresenta.

 

* PDCI Reggio Emilia - Segretario Sez. Paolo Davoli "Sertorio"


“Resistenza e Psicoanalisi”
La parola singolare contro l’omologazione

Incontro con:


Dott. Maurizio Montanari
Psicoterapeuta del Centro di psicoanalisi applicata “LiberaParola”

“Vale a dire il pensiero unico ed irriducibile del singolo contro l'omologazione. Nel tempo presente assistiamo alla omologazione del pensiero, espressa  nel concetto di “salute mentale”. Una categoria folle e assoluta, che pretende di comprendere ogni minima variazione che si discosta dal questa classificazione. L'analisi è resistenza in quanto va contro l'omologazione e valorizza il desiderio del singolo, in qualsiasi parte esso si trovi.”

 

Campogalliano 21/07/11


“DIRITTO ALLA RESISTENZA”

I valori della Resistenza sono considerati valori universali?

La loro difesa è ancora da considerare un diritto dei popoli?

 

Incontri con:

28 aprile - “RESISTENZA DONNA”

Ibes Pioli “Rina” (ANPI – Mo)
Stefania Zanni (Sindaco Campogalliano – Mo)

Avv. Gabriella Alboresi (Ass. DONNE GIUSTIZIA)

Linda Pastorelli (ASSEDONNA – GUERNICA)

 


5 maggio - “RESISTENZA SOCIALE”

 

Linda Leoni (Ass. Politiche Sociali Campogalliano – Mo)

 

 

 

 

Alessandro Iotti, Alessandro Moranzoni  (Coll. Univ.“Lettere in Movimento” - Mo)

 

 


 

18 maggio - “RESISTENZA IN FILOSOFIA”


 

Lezione Magistrale di Lorenzo Barani Doc. di filosofia

1° PARTE 

2° PARTE

 

 

 


 

24 maggio - “RESISTENZA DEI POPOLI”
Palestina, Rivolte Arabe,  Saharawi, Diritto Internazionale


 

Maurizio Musolino (giornalista e Resp.esteri Pdci),

 

 

 

 

 

 

Rita Tassoni (Nexus Emilia Romagna)

 

 

 

 

 

 

 

Avv.Fausto Gianelli (Giuristi Democratici)

 

1° PARTE 

2° PARTE 



7 giugno - “Resistenza Pianeta Terra”

Marco Bersani (Forum Italiano Movimento per l’acqua)
Franco Villa (Fisico – Rapp. del Comitato “VOTA SI per fermare il Nucleare”)

 

2011 San Rocco- piazza Castello - Campogalliano - Modena


Resistenza 25 aprile 2011
“LIBERTA’ COME FILOSOFIA DI VITA”


Testimonianza della partigiana Ibes Pioli “Rina”
Intervistata da Linda Pastorelli (redazione Alkemia)
presso ASSEDONNA – Guernica – Modena


“Questa esperienza mi consente di rivolgermi alle ragazze e ai giovani, per dire loro che l'impegno civile, sociale e politico per difendere e salvaguardare i valori di pace, giustizia e libertà propri di una democrazia moderna è fondamentale, rende la vita più piena, è gratificante per sè e rende migliore la società in cui viviamo”.


1° Parte“Non è vero che non si aveva paura, al contrario, ma era giusto farlo”

  • La vita durante la dittatura fascista e i perseguitati politici.
  • L’8 settembre 43’ e l’eccidio di Cefalonia.
  • La Resistenza in città a Modena: il ruolo dei cittadini, la nascita delle staffette partigiane, i rastrellamenti e le impiccagioni e le torture in Accademia.
  • L’azione di Paganine
  • De Gasperi e la Resistenza
  • Il patto d’azione per cacciare i nazi-fascisti.
  • Il voto alle donne e le rivendicazioni.
  • L’impatto del referendum “Repubblica o Monarchia” sulla società italiana.
  • La nascita della Costituzione, le uccisioni alle fonderie Riunite di Modena.

2° Parte – “Bisogna essere contro la Guerra perché la fanno sempre i figli dei poveri, quelli dei ricchi erano tutti malati di tisi polmonare”.

  • La clandestinità.
  • Un azione rischiosa da “staffetta” contro le Brigate Nere
  • Le armi nascoste in negozio di biciclette da Novello.
  • L’uccisione di Gabriella degli Esposti incinta.
  • Irma Marchiani
  • La brigata di sole donne.
  • Gruppi di Difesa della Donna
  • La Resistenza in pianura.
  • Il 18 e 19 aprile 45’ prima della Liberazione di Modena nascosti presso le famiglie della Crocetta.
  • 8 maggio 45’: il riconoscimento degli anglo-americani e l’azione sui tetti di Modena per scongiurare il loro bombardamento della città.
  • L’entrata in città delle forze Partigiane e la conoscenza del comandante Andrea, partigiano della Brigata Gramsci.
  • L’attesa della cacciata dagli organi dello stato dei complici del regime fascista.
  • Arrivo degli inglesi a Pescia, il tentativo di rinchiudere i partigiani nei campi di prigionia e l’attentato fallito contro la delegazione dei partigiani diretti a Roma per impedirlo.

3° Parte – “Non dobbiamo reagire con la violenza ai nuovi gruppi fascisti, perché la violenza genera altra violenza. Dobbiamo pretendere che lo stato reagisca contro di essi”
Le domande del pubblico:

  • Quale rapporto tra le Brigate Cattoliche e quelle Comuniste o Monarchiche?
  • Quando avviene l’adesione degli intellettuali italiani alla Resistenza?
  • “L’Armadio della vergogna” ha rivelato numerosi fascicoli occultati dalle forze dell’ordine per impedire il processo a criminali fascisti. Come è stato possibile e come vi siete sentiti dopo questa scoperta?
  • Il ruolo della Chiesa  ed in particolare di Papa Pacelli – Pio XXII con il regime fascista?
  • Lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento. Cosa sapevate?
  • Cosa significa essere oggi “donne guerriere”?

 

IO HO SEMPRE DIFESO CIO' CHE HO AMATO!
di Ibes Pioli detta "Rina"

“Ho amato tutto ciò che mi ha aiutato a vivere: la famiglia, le amicizie, i giochi. Un po' meno la scuola fascista. La famiglia è stata la parte più importante per le mie scelte formative e cioè per il cimento che ho avuto nelle scelte dei miei ideali. Mio padre, antifascista, ha saputo trasmettermi con comportamenti esemplificativi ciò che con ardore ha seguito nelle immense difficoltà per tutta la sua vita e cioè il riscatto dei lavoratori nelle lotte per la dignità del lavoro, la libertà e la pace come bene innegabile. Il 25 luglio 1943, con la caduta di Mussolini da capo di tutto, fu un momento di grande gioia, ma anche di grande attesa per gli sviluppi che sarebbero avvenuti. L'8 settembre 1943 con l'abbandono da parte degli alti comandi militari del nostro esercito, della marina e dell'aviazione in balia di se stessi, i giovani si sentirono traditi; molti fecero scelte coraggiose: campo di concentramento in Germania piuttosto che aderire alla repubblichina di Salò. Altri, che riuscirono a tornare a casa, si riunirono in formazioni partigiane clandestine per combattere contro i brigatisti neri al servizio dei nazisti invasori. Io mi impegnai come staffetta partigiana. La popolazione si strinse attorno ai suoi figli proteggendoli in tutti i modi, si formò così un forte schieramento di opposizione che portò alla vittoria finale.
La Liberazione portò un assetto politico e istituzionale democratico, libero finalmente. Ad oltre 60 anni della Liberazione, stanno affiorando venti di forti cambiamenti dei principi fondamentali che la nostra Costituzione garantisce per togliere quei valori di ideali di libertà, di pace e di democrazia che la Resistenza ha conquistato col sacrificio di tanti giovani martiri per un'Italia nuova.”

 


35 ANNI FA MORIVA UN DITTATORE: FRANCISCO FRANCO


Il 20 novembre 1975 moriva l'ultimo dittatore fascista d'Europa, l'uomo che con l'aiuto fondamentale dell'aviazione fascista italiane e le armate inviate dal nostro Benito Mussolini, marciò e distrusse la repubblica spagnola democraticamente eletta.
Una guerra civile sanguinosa che ha coinvolto non solo, tutto il popolo democratico spagnolo ma anche la partecipazione attiva delle Brigate Internazionali composte per lo più, da comunisti, anarchici e democratici provenienti da tutta Europa.
Tra loro anche molti italiani che, proprio in questo anniversario, abbiamo deciso di ricordare. Non solo per il loro spirito di sacrificio ma per l'alto valore democratico. Anche perché mettere a disposizione la propria vita per la libertà di un popolo di un'altra nazione, non è certamente la prerogativa dominante di questi tempi. 20/11/2010

LOS ITALIANOS

E' la storia di due piacentini, raccolta nel libro edito dalla Infinito Edizioni, che proprio nel 1936 decidono di fare quella scelta. Due combattenti per la libertà che hanno immolato la loro vita nel tentativo di opporsi al Golpe di Franco e all'avanzata del fascismo in tutta Europa.

Ricordarli significa aiutare a comprendere la profonda differenza d'intenti e di valori che le due fazioni rivali, ieri come oggi, esprimono.

 

 


BOMBA FASCISTA DAVANTI AL CENTRO SOCIALE CIMARELLI



“Giovedi 17 giugno alle ore 01.26 è esplosa una bomba carta davanti al cancello del Centro Sociale Autogestito Germinal Cimarelli, sede anche dell’Organizzazione Sindacale “COBAS”. Due compagni che si trovavano nel centro di documentazione, posto al primo piano, hanno sentito dei rumori all’esterno. Quando si sono affacciati hanno visto una macchina che si allontanava velocemente, poi il bagliore dell’esplosione ed infine hanno sentito il boato. Tanta la paura nel quartiere, alcuni cittadini svegliati dall'esplosione hanno dato prontamente l'allarme e in breve è intervenuta una macchina dei Carabinieri che hanno solo potuto accertare l'accaduto. Risultava sottratto anche uno striscione politico in solidarietà con la Palestina affisso lungo via del Lanificio”

Questo è quanto riportato nel comunicato dai militanti del CSA CIMARELLI in riferimento all’attentato avvenuto pochi giorni dopo un iniziativa per celebrare la liberazione di Terni dal nazifascismo, serata in cui, guarda caso, era stata proiettata anche l’inchiesta “Ombre nere” sull’organizzazione Casa Pound.

”Ci riteniamo fortunati – dichiarano i ragazzi presenti nello stabile – perché ci trovavamo all'interno della struttura e non nel giardino perché altrimenti l'ordigno ci sarebbe esploso addosso”.

“L’attentato è di chiara matrice fascista, sia per la dinamica che per la tempistica. Nella notte, intorno alle ore 24.00, erano stati visti appartenenti all’organizzazione neofascista Casapound attaccare uno striscione a Ponte le Cave. Altre volte era accaduto che i neofascisti attaccassero manifesti e striscioni a Terni, ma mai ci saremmo aspettati un attacco contro la nostra sede.
Riteniamo che questo “salto di qualità” sia figlio della legittimazione che questi individui hanno ricevuto grazie all’azione intimidatoria che il Questore ha messo in atto con gli “avvisi orali” contro coloro che avevano contestato i neofascisti all’aviosuperficie. Ricordiamo che il Questore nelle notifiche degli avvisi orali agli antifascisti definisce i neofascisti“un gruppo di sportivi paracadutisti”.

L’attentato avviene dopo che da parte di esponenti del PDL e della destra locale sono state espresse dichiarazioni di legittimazione degli stessi “paracadutisti”. Vorremmo sapere cosa hanno da dire i signori Raffaele Nevi e Alfredo De Sio che proprio ieri hanno parlato nei nostri confronti (che denunciavamo la grave intimidazione della Questura attraverso gli “avvisi orali” alle pubbliche proteste antifasciste) di “linguaggio di altri tempi che evoca scenari inesistenti alimentando tensioni strumentali e pericolose”. Ricordiamo a lorsignori che i linguaggi delle destre e dei servizi in Italia sempre si sono espressi con le bombe, gli esplosivi e le intimidazioni, da piazza Fontana alla strage alla stazione di Bologna.

Ci troviamo ora nella situazione paradossale in cui, chi ha manifestato pubblicamente contro l'entrata dei fascisti di casapound in città, si trova attaccato da più fronti:

Da quello istituzionale, con  gli “avvisi orali” del Questore che sono atti intimidatori che violano la libertà personale, quello amministrativo attraverso multe di oltre 5.000 € fatte dai vigili urbani e da quello politico-militare con la bomba carta neofascista fatta esplodere ieri notte.

 

Abbiamo impedito l'entrata dei fascisti di casapound a Terni perchè il fascismo è un pratica razzista e violenta, è squadrismo e l'episodio di questa notte ne è l’ulteriore conferma. Questi soggetti diffondono odio tramite la paura ed il razzismo. Terni non si spaventerà di fronte a chi è stato vinto dalla storia, davanti allo squadrismo neofascista.

Il Centro Sociale e tutte le realtà della RAT (Rete Antifascista Ternana) continueranno  a lottare contro questi individui a difesa di una città civile, democratica, antifascista e multiculturale, che fonda le sue radici nel lavoro, nella solidarietà, nella Resistenza e nell'integrazione sociale.

E’ per questo che lanciamo un appello per la solidarietà e la vigilanza democratica a tutte le persone, le associazione e le istituzioni democratiche della nostra città.


ALKEMIA LEGGE LA RESISTENZA

Ricordare il 25 aprile festa della Liberazione dal dominio nazi-fascista è un dovere, non solo per tutti quegli italiani partigiani che hanno donato la propria vita per questo obiettivo ma, anche per tutti quelli che credono ancora oggi in quegli ideali di libertà e di giustizia.

 

Ricordarli e celebrarli oggi, significa anche difendere il nostro paese da questi nuovi e vecchi fascismi emergenti.

Ernesto Che Guevara diceva: “ Smetterò di combattere il giorno in cui tutti gli uomini saranno liberi di esprimere il proprio parere e non esisterà più, in nessun luogo della terra, alcun sfruttato”

Anche se qualcuno non lo crede, la Resistenza per tanti di noi non è mai finita.


  “Asce di guerra” di Linda Pastorelli
(tratto dal libro “Asce di Guerra”)  

 

 

“Parole e significati” di Enrico Gatti
(autori vari)

 

 

  

 “Resistendo” di Flavio Novara
(tratto dal libro “Carlo Giuliani – Anche se voi vi credete assolti”)

 

 

 “Adolescenza Resistente” di Ermanno Bugamelli
(tratto dal libro “Storie di libertà – Storie di partigiani Modenesi)

 

 

 “Tornando sulla mia terra” di Mirca Garuti
(tratto da lettera ad Alkemia di Bassam Saleh)

 

 

 “Cento passi di Resistenza” di Ermanno Bugamelli

 

 

 

 

 “El vas del sombrero” di Marco Balugani
(tratto da testo della canzone del gruppo SKAP)


 

 

 “Saharawi: una resistenza dimenticata” di Mirca Garuti
(tratto dal reportage di Alkemia in Saharawi)

 

 “Per non dimenticare” di Luca Biondi
(foto e manifesti durante la resistenza)

 

 

  “La guerra e gli operai” di Cinzia Nachira (scritto di Rosa Luxemburg)

 

 

ROSA LUXEMBURG, LA GUERRA E GLI OPERAI

di Rosa Luxemburg


I miei difensori hanno giuridicamente chiarito in modo esauriente gli elementi di fatto dell'accusa nella loro futilità. Vorrei chiarire quindi l'accusa sotto un altro punto di vista. Tanto nella arringa odierna del procuratore di stato quanto nella sua accusa scritta ha una parte importante non soltanto il tenore letterale delle mie espressioni incriminate, ma ancor più la chiosa e la tendenza che avrebbe dovuto essere inerente a queste parole. Ripetutamente e con il massimo vigore è stato rilevato dal procuratore di stato ciò che secondo il suo parere io avrei voluto e saputo, allorché facevo le mie dichiarazioni in quelle riunioni. Ora, nei riguardi del momento psicologico interno del mio dire, sulla mia coscienza, nessuno può essere più competente di me e più di me in condizione di dare il chiarimento più completo e di fondo.
E io voglio premettere un rilievo: ben volentieri sono disposta a dare un totale chiarimento al procuratore di stato e a loro, signori giudici. Per eliminare il fattore principale, vorrei spiegare come ciò che il procuratore di stato, appoggiato dalle dichiarazioni dei suoi principali testimoni, ha descritto come corso delle mie idee, come mie intenzioni e miei sentimenti, non sia che una caricatura piatta, priva di spirito, tanto dei miei discorsi come in generale del metodo di agitazione socialdemocratico. Sentendo l'esposizione del procuratore di stato mi veniva da ridere interiormente e pensavo: qui abbiamo di nuovo un esempio classico di come una cultura normale sia insufficiente a comprendere il pensiero socialdemocratico, il nostro mondo ideale in tutta la sua complessità, sottigliezza scientifica e profondità storica quando l'appartenenza a una classe sociale ne impedisce la visione. Se loro, signori giudici, avessero chiesto al più semplice, illetterato operaio delle migliaia che frequentano le mie riunioni, avrebbero ottenuto da lui un quadro ben differente, avrebbero tratto ben altra impressione dei miei discorsi. Sì, i semplici uomini e donne del popolo lavoratore sono in grado di afferrare il nostro pensiero, che invece nel cervello di un procuratore di stato prussiano si riflette come in uno specchio curvo in forma di caricatura. Voglio adesso dimostrare ciò più minutamente in alcuni punti.

Il procuratore di stato ha ripetuto varie volte che io avrei "aizzato smodatamente" le migliaia di miei ascoltatori, già prima di quella frase incriminata che avrebbe rappresentato il culmine del mio discorso. Io dico: signor procuratore, noi socialdemocratici non aizziamo nessuno! Cosa vuol dire "aizzare"? Ho forse tentato di inculcare agli uditori qualcosa come questo: se voi giungerete in guerra come tedeschi in paese nemico, per esempio in Cina, fate in modo che nessun cinese dopo cento anni osi guardare un tedesco di traverso? Se avessi parlato così, si potrebbe parlare di aizzamento. Ho forse tentato di ispirare nelle masse l'oscurantismo nazionale, lo sciovinismo, il disprezzo e l'odio per altre razze e popoli? Anche questo sarebbe stato certamente un aizzamento.
Ma io non ho parlato così e così non parla mai un socialdemocratico esperto. Quello che io ho fatto in quelle riunioni di Francoforte e quello che noi socialdemocratici facciamo sempre con la parola e con gli scritti è di illuminare le masse operaie, renderle coscienti dei loro interessi di classe e dei loro compiti storici, far loro presenti le grandi linee dello sviluppo storico, le tendenze dei rivolgimenti economici politici e sociali che si compiono in seno alla nostra odierna società, che porteranno necessariamente a far sì che a un certo momento della evoluzione l'attuale ordinamento sociale venga eliminato e sostituito dal superiore ordinamento socialistico. E così noi, ponendoci sul terreno delle prospettive storiche che ha un'efficacia mobilitante, agitiamo e solleviamo anche la vita morale delle masse. Partendo dallo stesso grande punto di vista, noi procediamo - in quanto per noi socialdemocratici tutto porta a una concezione della vita armonica, coerente, posta su basi scientifiche nella nostra agitazione contro la guerra e contro il militarismo. E se il signor procuratore coi suoi meschini testimoni principali non concepisce tutto ciò che come un semplice lavoro di aizzamento, questa concezione rozza e semplicistica è dovuta unicamente e soltanto alla incapacità del procuratore di stato di pensare in termini socialdemocratici.
Il procuratore di stato ha inoltre ripetutamente parlato dei miei pretesi accenni “all'assassinio dei superiori". Questi nascondevano, ma tutti comprendevano, l'accenno all'uccisione degli ufficiali, chiarendo così in modo particolare la mia anima nera e la pericolosità dei miei intendimenti. Io li prego di ammettere per un momento persino l'esattezza delle espressioni che mi sono state messe in bocca; in questo caso loro debbono riconoscere, dopo qualche riflessione, che proprio su questo punto il procuratore nel lodevole tentativo di dipingermi il più nero che fosse possibile - è andato completamente fuori strada. Infatti quando e contro quali "superiori" avrei incitato all'assassinio? La stessa accusa asserisce che io avrei raccomandato l'introduzione in Germania del sistema della milizia; avrei indicato come l'elemento essenziale di questo sistema, il dovere di consegnare alle truppe perché le portino a casa, le armi personali come avviene in Svizzera. E a ciò - notare: a ciò - avrei aggiunto che le armi potevano poi andare anche in un senso diverso di quello gradito ai governanti. E' quindi chiaro: il procuratore mi accusa di aver incitato all'assassinio non dei superiori dell'attuale sistema militare tedesco, bensì dei superiori della futura milizia tedesca! La nostra propaganda in favore del sistema della milizia viene combattuta al massimo e nell'accusa mi viene ascritta come delitto. E in pari tempo il procuratore di stato si sente indotto a occuparsi della vita degli ufficiali di questo sistema della milizia così rigorosamente proibito, che io vado mettendo in pericolo. Ancora un passo e il signor procuratore, nel fervore dello scontro, eleverà contro di me l'accusa di incitare ad attentati contro il Presidente della futura repubblica tedesca!
Che cosa ho detto in realtà del cosiddetto assassinio dei superiori? Qualcosa di assolutamente diverso! Nel mio discorso avevo accennato al fatto che l'attuale militarismo viene solitamente motivato dai suoi paladini ufficiali con la frase della necessaria difesa della patria. Se questo interesse della patria fosse inteso onestamente e sinceramente, allora - così dicevo - le classi dominanti non avrebbero altro da fare che mettere in pratica la vecchia rivendicazione programmatica della socialdemocrazia, il sistema della milizia. Poiché soltanto questa sarebbe l'unica sicura garanzia della difesa della patria, in quanto solamente il popolo libero, che entra in campo contro il nemico per propria decisione, è un baluardo sufficiente e fidato per la libertà e l'indipendenza della patria. Soltanto allora si potrebbe dire "Cara patria puoi stare tranquilla". Perché dunque, chiedevo io, i paladini ufficiali della patria non vogliono sentir parlare di questo unico sistema efficace di difesa? Soltanto perché a essi non importa né in prima né in seconda linea della difesa della patria, quanto delle guerre di conquista imperialistica per le quali la milizia certo non serve. In più le classi dominanti hanno timore di mettere le armi in mano al popolo lavoratore, perché la cattiva coscienza degli sfruttatori fa loro temere che le armi potrebbero andare anche in un senso non gradito ai governanti.
Così quello che io formulavo quale timore delle classi governanti, mi viene imputato dal procuratore di stato, sulla base della parola dei suoi impacciati testimoni principali, come mio asserto personale. È questa una nuova dimostrazione di quale guazzabuglio abbia causato nel suo cervello l'incapacità assoluta di seguire il corso del pensiero socialdemocratico.
Del pari assolutamente falsa è l'affermazione dell'accusa che io avrei raccomandato l'esempio olandese, secondo il quale nell'esercito coloniale il soldato è libero di abbattere il superiore che lo maltratti. In realtà, quella volta parlando in merito al militarismo e al maltrattamento dei soldati, citavo il nostro indimenticabile Bebel ricordando come uno dei capitoli più importanti della sua attività sia stato la lotta in seno al Reichstag contro il maltrattamento dei soldati. Per illustrare l'argomento citai allora vari discorsi di Bebel tratti dai resoconti stenografici delle sedute al Reichstag - i quali, per quanto mi consta, sono legalmente permessi. Fra gli altri, quello del 1893 sui costumi dell'esercito coloniale olandese. Loro vedono, miei signori, come anche qui il signor procuratore nel suo zelo abbia preso un abbaglio: la sua accusa in ogni caso non doveva essere contestata a me ma a un altro.

Vengo ora al punto più rilevante dell'accusa. Il procuratore di stato ricava il suo attacco principale, cioè l'affermazione che nel discorso incriminato io avrei incitato i soldati in caso di guerra a non sparare sul nemico contrariamente agli ordini, da una deduzione che gli sembra evidentemente di inconfutabile forza probante e di logica stringente. Egli deduce quanto segue: poiché io facevo dell'agitazione contro il militarismo, poiché io volevo impedire la guerra, non potevo evidentemente seguire altra via, non potevo avere in vista altro mezzo efficace che quello di intimare direttamente ai soldati: se vi si ordina di sparare, non sparate! Davvero signori giudici: quale conclusione convincente, quale logica stringente!
Tuttavia mi si permetta di dichiarare: questa logica e questa conclusione risultano dalla concezione del procuratore di stato, non dalla mia, non da quella della socialdemocrazia. A questo punto li prego di prestare particolare attenzione. Io dico: la conclusione che l'unico mezzo efficace per evitare le guerre consista nel rivolgersi direttamente ai soldati e di incitarli a non sparare - questa conclusione è soltanto l'altra faccia di quella concezione secondo cui, fintantoché il soldato obbedisce agli ordini dei suoi superiori, tutto nello Stato è ben sistemato, secondo cui - per dirla in breve - il fondamento del potere statale e del militarismo è rappresentato dall'obbedienza cadaverica del soldato. Questa concezione del signor procuratore trova un armonioso completamento ad esempio in quel discorso pubblicato ufficialmente dal massimo signore della guerra, secondo il quale il kaiser, ricevendo il re dei greci a Postdam il 6 novembre dello scorso anno, ha detto che la vittoria dell'esercito greco dimostra "che i princìpi seguiti dal nostro comando generale e dalle nostre truppe, se esattamente applicati, portano sempre alla vittoria". E comando generale con i suoi "principi" e il soldato con la sua obbedienza cadaverica - ecco le basi della condotta della guerra e la garanzia della vittoria. Ora, noi socialdemocratici non siamo precisamente di questa opinione. Noi pensiamo piuttosto che per l'insorgere e per l'esito delle guerre non siano decisivi soltanto l'esercito, i "comandi" dall'alto e l'obbedienza cieca in basso, ma che sia la grande massa del popolo lavoratore che decide e che deve decidere. Noi siamo d'opinione che le guerre possono venire condotte solo quando e solo finché la massa del popolo lavoratore o le fa con entusiasmo, perché le ritiene cosa giusta o necessaria, o almeno le sopporta pazientemente. Quando invece la grande maggioranza della popolazione lavoratrice arriva a convincersi - e svegliare in essa questo convincimento, questa coscienza è proprio il compito che ci poniamo noi socialdemocratici - quando, dico, la maggioranza del popolo giunge a convincersi che le guerre sono un fenomeno barbaro, profondamente immorale, reazionario e nemico del popolo, allora le guerre sono diventate impossibili - e il soldato obbedisca pure in principio ai comandi dei superiori! Secondo il concetto del procuratore di stato la parte che fa la guerra è l'esercito, secondo il nostro, è il popolo. Questo ha da decidere se le guerre vanno fatte o no. È alla massa degli uomini e delle donne che lavorano, vecchi e giovani, che spetta decidere circa l'essere o non essere del militarismo attuale, e non a quella piccola particella di questo popolo che sta nel cosiddetto abito del re.
E se ho detto questo, ho contemporaneamente una classica testimonianza in mano, che questa è in realtà la mia, la nostra concezione.

Per caso sono in grado di rispondere alla domanda del procuratore di stato di Francoforte: chi avessi inteso allorché, in un mio discorso tenuto a Francoforte, dissi: "noi non facciamo questo". E 17 aprile 1910 ho parlato qui, al Circo Schumann, davanti a circa 6.000 persone, sulla lotta per il diritto di voto in Prussia - come sanno, allora la nostra lotta era al suo apice e trovò nel testo stenografico di quel discorso a p. 10 il seguente passo:
"Egregi ascoltatori! Io dico: nell'attuale lotta per il diritto di voto, come in tutte le questioni politiche importanti del progresso in Germania, siamo tutti soli, abbandonati a noi stessi. Ma chi siamo "noi"? "Noi" siamo i milioni di proletari e proletarie di Prussia e Germania. Sì, noi siamo più di un numero. Noi siamo i milioni di coloro del cui lavoro manuale vive la società. E basta che questo semplice fatto metta radici nella coscienza delle più larghe masse del proletariato tedesco, perché venga infine il momento che in Prussia sia dimostrato a reazione imperante che il mondo può ben fare a meno degli junker dell'Elba orientale, e anche dei conti del Centro, e dei consiglieri segreti e occorrendo anche dei procuratori di stato (agitazione), ma che non può esistere ventiquattro ore, se gli operai incrociano le braccia".
Loro vedono che io esprimo chiaramente quale sia secondo il nostro modo di vedere il centro di gravità della vita politica e dei destini dello Stato: nella coscienza, nella volontà chiaramente formata, nella decisione della grande massa lavoratrice. E proprio così pure concepiamo la questione del militarismo. Se la classe operaia giunge alla maturità e alla decisione di non permettere più guerre, le guerre sono diventate impossibili.
Ma io ho ancora altre dimostrazioni del fatto che noi comprendiamo così e non in altro modo l'agitazione antimilitaristica. Io debbo stupirmi: il procuratore di stato si dà grande pena per distillare con interpretazioni, ipotesi, deduzioni arbitrarie dalle mie parole in qual guisa io abbia potuto pensare di agire contro la guerra. Aveva invece a disposizione materiale dimostrativo in quantità. Noi non conduciamo la nostra agitazione antimilitaristica nella segreta oscurità, nascostamente - no, alla più chiara luce della pubblicità. Da decenni la lotta contro il militarismo forma l'oggetto principale della nostra agitazione. Fin dalla vecchia Internazionale è oggetto di discussioni e voti di quasi tutti i congressi, come pure dei congressi del partito tedesco. Il procuratore di stato non avrebbe che da affondare le mani nella piena realtà della vita: in qualunque punto avesse afferrato, sarebbe sempre interessante. Non mi è possibile, sfortunatamente, esporre qui tutto l'ampio materiale relativo. Mi permettano tuttavia di citare l'essenziale.
Già il congresso di Bruxelles dell'Internazionale, nell'anno 1868, indica misure pratiche per impedire la guerra. Nella sua risoluzione è detto fra l'altro: "Che i popoli possono già attualmente limitare il numero delle guerre, opponendosi a coloro che le guerre fanno e dichiarano; "che questo diritto spetta in modo particolare alle classi operaie, che sono quasi le sole che vengono chiamate al servizio militare e che per questa ragione sono le sole che possano dare una sanzione; "che a tale scopo esse hanno a disposizione un mezzo pratico, legale e di immediata realizzazione; "che la società non potrebbe infatti continuare a vivere se la produzione venisse a cessare per qualche tempo. I lavoratori-produttori non avrebbero quindi che da cessare di produrre per rendere impossibili ai governi personali e dispotici di porre in atto le loro imprese; "il congresso di Bruxelles dell'Associazione internazionale dei lavoratori dichiara di protestare energicamente contro la guerra e invita tutte le sezioni dell'associazione nei singoli paesi, come pure tutte le società operaie e le organizzazioni operaie senza distinzione, ad agire con il massimo impegno onde evitare una guerra fra popolo e popolo che, al giorno d'oggi, in quanto guerra fatta fra lavoratori, quindi fratelli e cittadini, sarebbe da ritenersi una guerra civile.
"Il congresso raccomanda ai lavoratori specialmente la sospensione del lavoro nel caso che nei loro rispettivi paesi scoppiasse una guerra"
Lascio da parte le altre numerose risoluzioni della vecchia internazionale e passo al congresso della nuova Internazionale. E il congresso di Zurigo del 1893 dichiarava:
"La posizione dei lavoratori nei confronti della guerra è nettamente definita dalle conclusioni del congresso di Bruxelles sul militarismo. La socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale deve opporsi in tutti i paesi e con tutte le sue forze alle brame schiavistiche della classe dominante; rinsaldare sempre più fermamente il legame di solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi; operare senza tregua per l'eliminazione del capitalismo che divide l'umanità in due campi nemici e aizza i popoli gli uni contro gli altri. Con il superamento del dominio di classe scompare anche la guerra. La caduta del capitalismo è la pace del mondo".

Il congresso di Londra del 1896 dichiara:
"Soltanto la classe operaia può avere la seria volontà e conseguire il potere di stabilire la pace nel mondo. A tale scopo chiede:
1. Contemporanea abolizione degli eserciti permanenti in tutti gli Stati e istituzione dell'armamento popolare.
2. Istituzione di un tribunale arbitrale internazionale, le cui decisioni abbiano forza di legge.
3. Decisione definitiva su guerra o pace direttamente da parte del popolo, nel caso che i governi non intendessero accettare la decisione del tribunale arbitrale".

Il congresso di Parigi del 1900 consiglia specialmente come mezzo pratico di lotta contro il militarismo:
"Che i partiti socialisti intraprendano ovunque l'educazione e la organizzazione dei giovani allo scopo di combattere il militarismo e proseguano nello sforzo con il massimo fervore".
Mi permettano ancora di riportare un passo importante della risoluzione del congresso di Stoccarda del 1907, nel quale è raccolta con grande plasticità tutta una serie di misure pratiche da prendersi da parte della socialdemocrazia nella lotta contro la guerra. E' detto:
"In realtà, a partire dal congresso internazionale di Bruxelles il proletariato ha intrapreso le più svariate forme di azione nella sua lotta instancabile contro il militarismo con crescente energia e successo, rifiutando i mezzi per l'armamento di terra e di mare, tentando di democratizzare l'organizzazione militare, nell'intento di evitare lo scoppio di guerre o di farle cessare, nonché in quello di sfruttare gli squilibri della società provocati dalla guerra a vantaggio della liberazione della classe operaia: così specialmente l'accordo dei sindacati inglesi e francesi dopo l'incidente di Fascioda, per assicurare la pace e per il ristabilimento di amichevoli relazioni fra Francia e Inghilterra; l'atteggiamento dei partiti socialisti al parlamento tedesco e a quello francese nel corso della crisi marocchina; le manifestazioni avvenute allo stesso scopo a opera dei socialisti francesi e tedeschi; l'azione comune dei socialisti austriaci e italiani che si riunivano a Trieste per evitare un conflitto fra i due Stati; inoltre, l'intervento energico delle masse operaie socialiste svedesi al fine di impedire un attacco alla Norvegia; da ultimo l'eroico sacrificio e le lotte di massa degli operai e dei contadini socialisti di Russia e Polonia per opporsi alla guerra scatenata dallo zarismo, per farla cessare e per utilizzare la crisi per la liberazione dei paesi e delle classi lavoratrici. Tutti questi sforzi testimoniano la potenza crescente del proletariato e il suo crescente impulso ad assicurare il mantenimento della pace mediante interventi decisivi".
E ora io chiedo: trovano lor signori in tutte queste risoluzioni e conclusioni anche una sola intimazione che voglia significare che noi ci mettiamo davanti ai soldati e gridiamo loro: non sparate! E perché? Forse perché temiamo le conseguenze di una simile agitazione, gli articoli punitivi? Oh, saremmo gente misera e dappoco se per paura delle conseguenze tralasciassimo qualche cosa che avessimo riconosciuta necessaria e utile. No, noi non lo facciamo perché diciamo: quelli che sono nel cosiddetto abito del re sono soltanto una parte della popolazione lavoratrice e se questa raggiunge la necessaria coscienza che la guerra è riprovevole e dannosa al popolo, allora anche i soldati comprenderanno (da soli), senza le nostre intimazioni, quel che devono fare nel caso specifico.
Loro vedono, signori, come la nostra agitazione contro il militarismo non sia tanto povera e semplicistica come la immagina il signor procuratore. Abbiamo a nostra disposizione molti e diversi mezzi d'azione: educazione dei giovani - e noi questo mezzo applichiamo con energia e risultato duraturo, nonostante tutte le difficoltà che ci vengono frapposte - propaganda in favore del sistema della milizia, riunioni di massa, dimostrazioni di piazza.... E per ultimo: guardino all'Italia. Come hanno risposto laggiù i lavoratori coscienti all'avventura tripolina? Con uno sciopero dimostrativo di massa, che è stato condotto nel modo più brillante. E come ha reagito di conseguenza la socialdemocrazia tedesca? Il 12 novembre 1912 gli operai berlinesi votavano in dodici assemblee una risoluzione nella quale ringraziavano i compagni italiani per lo sciopero di massa.
Già, lo sciopero di massa! dice il procuratore di stato. E proprio qui che egli crede di avermi afferrata di nuovo, nelle mie pericolosissime idee di distruzione di governi. Il procuratore di stato basava oggi la sua accusa specialmente insistendo sulla mia opera di agitazione per lo sciopero di massa, al quale egli legava le più spaventose prospettive di rovesciamento violento, quali possono esistere soltanto nella fantasia di un procuratore di stato prussiano. Signor procuratore di stato, se io potessi presupporre in lei la minima possibilità di afferrare una più nobile concezione storica, il nesso delle idee socialdemocratiche, le spiegherei, come faccio con successo in ogni riunione popolare, che gli scioperi di massa in quanto rappresentano un momento determinato nella evoluzione delle condizioni attuali, non vengono "fatti", così come non si "fanno" le rivoluzioni. Gli scioperi di massa sono una tappa della lotta di classe, alla quale ci porta a ogni modo con necessità naturale il nostro sviluppo attuale. Tutto il nostro compito, della socialdemocrazia, a questo riguardo consiste nel rendere chiara alla coscienza della classe operaia questa tendenza dello sviluppo affinché i lavoratori siano all'altezza dei loro compiti, una massa di popolo educata, disciplinata, matura, decisa e attiva.
Anche qui, come loro vedono, quando il procuratore di stato nell'accusa agita il fantasma dello sciopero di massa quale egli lo concepisce, vuol punirmi in realtà per i suoi pensieri e non per i miei.

Ora voglio concludere. Una cosa soltanto vorrei rilevare ancora. Nella sua esposizione, il signor procuratore ha dedicato molta attenzione specialmente alla mia piccola persona. Mi ha descritta come un grande pericolo per la sicurezza dell'ordine statale, non ha nemmeno disdegnato di scendere a un livello volgare e mi ha chiamata "Rosa rossa". Ha anche osato insinuare sospetti nei riguardi del mio onore personale, esponendo il timore che io fuggissi nel caso la sua proposta di condanna venisse accolta. Signor procuratore, non mi degno di rispondere per la mia persona a tutti i suoi attacchi. Ma una cosa voglio dirle: Lei non conosce la socialdemocrazia. (Il presidente, interrompendo: "Noi non possiamo ascoltare qui un discorso politico"). Nel 1913 molti suoi colleghi hanno lavorato col sudore alla fronte, in modo da riversare sulla nostra stampa un totale di 60 mesi di carcere. Ha forse lei sentito dire che uno solo dei condannati abbia tentato la fuga per timore del castigo? Crede lei che questa infinità di condanne abbia portato anche un solo socialdemocratico a vacillare, oppure lo abbia scosso nell'adempimento del suo dovere? Oh no, la nostra opera se ne ride di tutti i raggiri dei suoi paragrafi punitivi, essa cresce e prospera nonostante tutti i procuratori di stato!

Per ultimo, ancora una parola soltanto sull'attacco inqualificabile che ricade sul suo autore. Il procuratore di stato ha detto testualmente - me lo sono notato - che egli propone l'arresto immediato perché "sarebbe inconcepibile che l'accusata non tentasse la fuga".

Ciò vuol dire in altre parole: se io, procuratore di stato, avessi da scontare un anno di carcere, io tenterei la fuga. Signor procuratore, le credo, lei fuggirebbe. Un socialdemocratico non fugge. Egli conferma i suoi atti e se ne ride dei suoi castighi. E adesso mi condannino.
 
(nota: autodifesa di Rosa Luxemburg pronunciata al Tribunale di Francoforte nel febbraio del 1914 contro l'accusa d’incitamento alla diserzione)



Nel dicembre 1918 viene fondato il nuovo Partito Comunista di Germania, di cui entra a far parte anche lo Spartacus Bund, la Lega di Spartaco, cioè l'associazione diretta da Rosa Luxemburg e Leo Jogiches. Nel gennaio del 1919, a seguito della rimozione del questore di Berlino - vicino ai comunisti - da parte del governo, le masse spartachiste e comuniste scendono in piazza. Rosa non riesce a trattenere i dirigenti del partito dall'appoggiare una rivolta male organizzata e peggio gestita, che si conclude con un sanguinoso fallimento. La sede del partito viene espugnata da parte della polizia e molti esponenti comunisti vengono catturati e fucilati. Rosa si salva, ma viene arrestata dopo pochi giorni, il 15 gennaio, insieme al segretario del partito Karl Liebknecht, che viene poi assassinato dai soldati. Aveva scritto la Luxemburg nel suo ultimo articolo, redatto il giorno prima di venire catturata ed intitolato “L'ordine regna a Berlino”:


“La direzione (leadeship)  ha fallito. Ma essa puo' e deve essere nuovamente creata dalle masse e entro le masse. Le masse sono il fattore decisivo, sono la roccia sulla quale sarà edificata la vittoria finale della rivoluzione. Le masse sono state all'altezza della situazione, esse hanno fatto di questa "sconfitta" un anello di questa catena di sconfitte storiche che sono l'orgoglio e la forza del socialismo internazionale. E percio' da questa sconfitta sboccerà la futura vittoria. "Ordine regna a Berlino!".Stupidi sbirri! Il vostro "ordine" e' costruito sulla sabbia. La rivoluzione già domani " si alzerà di nuovo con fracasso" e con vostro terrore annuncerà con squilli di trombe :
IO ERO, IO SONO, IO SARO'!".

Nella notte fra il 15 ed 16 gennaio 1919, durante il viaggio di trasferimento in carcere, Rosa viene prima colpita con il calcio del fucile, quindi finita con una revolverata e gettata in un canale di Berlino. Il 17 gennaio Leo Jogiches comunicherà a Lenin l'accaduto con una sola riga:

“Ieri Rosa e Karl hanno prestato l'ultimo servizio alla nostra causa”.
 


 

GIORNATA DELLA MEMORIA

RICORDARE I DIMENTICATI

Settantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata rossa arrivarono ad Auschwitz e rivelarono per la prima volta al mondo intero l’orrore del genocidio nazista. Le immagini che si trovarono davanti i soldati sovietici che aprirono le porte del campo di concentramento sono impresse nella nostra memoria collettiva.

Da dieci anni in Italia si celebra la Giornata della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

I terribili crimini commessi dal regime nazisti però non colpirono solo le persone di religione ebraica ma anche omosessuali, zingari, comunisti, malati di mente ed internati militari che si erano rifiutati di asservirsi ad Hitler. Questa giornata allora deve essere un momento per ricordare anche loro, ultimi degli ultimi, uccisi dalla pazzia di chi li credeva feccia inutile da eliminare.

 

LA RITUALIZZAZIONE DELLA MEMORIA di Cinzia Nachira


Alcuni documenti sullo sterminio di:

 Omosessuali e transessuali

Olokaustus. Il triangolo rosa: la persecuzione di omosessuali e transessuali 

Museo Virtuale delle intolleranze e degli stermini. Lo sterminio degli omosessuali  

Dittatori.it. Nazismo e omosessualità
Giornata.org Omocausto. Lo sterminio degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti

 

La deportazione di Gay e lesbiche

 

Sterminio di Rom e zingari

Uno dei principali scienziati razziali, il Professor Hans Gunther, scrisse
“Gli Zingari hanno effettivamente mantenuto alcuni elementi della loro origine nordica, ma essi discendono dalle classi più basse della popolazione di quella regione. Nel corso della loro migrazione, hanno assorbito il sangue delle popolazioni circostanti, diventando quindi una miscela razziale di Orientali e Asiatici occidentali con aggiunta di influssi Indiani, Centroasiatici ed Europei”
LibLab Storia dello sterminio dei Rom
Lager. Lo sterminio degli Zingari – Porrajmos
Anpi. Lo sterminio nazista degli zingari
La persecuzione degli zingari
La deportazione degli zingari durante il fascismo

 

Sterminio dei malati di mente e dei disabili

Lo sterminio dei disabili

Olokaustos. L'Aktion T4: il progetto di eutanasia nazista
Il progetto Aktion T4. Vite indegne di essere vissute
Mente Critica. Lo Sterminio delle Persone con Disabilità nella Germania Nazista  

 

Deportati politici nei campi di concentramento

I deportati toscani
Internati politici di Calvari
Aned - - Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti  

 

Gli internati militari italiani (IMI)

Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 oltre 600.000 militari italiani rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e scelsero di non aderire alla Repubblica Sociale Italiana. La conseguenza del loro no fu la deportazione e l'internamento nei lager nazisti, non come prigionieri di guerra ma con lo status mai utilizzato prima di IMI, Internati Militari Italiani.

La resistenza degli Internati Militari Italiani in Germania dopo l'8 settembre 1943
Gli internati  militari italiani
La beffa degli internati militari italiani


Nessuna pensione agli assassini di Salò!
Alessandro Fontanesi*

Con la grave emergenza che ha investito il nostro Paese in ambito lavorativo, occupazionale, economico e non, la destra al governo non trova di meglio che riproporre una legge antistorica per onorare i combattenti della Rsi di Salò. Una vergogna ideologica, morale e anticostituzionale, attraverso la quale si vorrebbero parificare i repubblichini ai Partigiani, con tanto di medaglia e pensione di guerra.
E’ la terza volta che la destra tenta di far passare una proposta del genere, accadde nel ’94, poi di nuovo nel 2001 ed ora anche oggi, nemmeno tre mesi dopo aver ripreso il potere, guarda caso sempre durante i governi di Silvio Berlusconi e sempre per iniziativa di orgogliosi mai pentiti ex fascisti, ex missini ed ora ex An.
Attraverso quella che dovrebbe diventare una legge dello Stato italiano, si propone l’istituzione dell’Ordine del Tricolore, un atto dovuto da parte del nostro Paese, secondo i deputati del Pdl, verso tutti coloro che 64 anni fa impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento “dettata dalla buona fede” in difesa della Patria e per giunta certificata dalla firma del Presidente della Repubblica.
Una bestemmia, un’ignomia, una volgare provocazione che oltre ad offendere coloro che diedero la vita per la libertà dell’Italia democratica, sarebbe in totale contrasto con la nostra Costituzione.
In proposito hanno già espresso il loro parere negativo e contrario, due ex Presidenti della Repubblica come Scalfaro e Ciampi.
Se questa proposta di legge dovesse passare, sarebbero messi sullo stesso piano i Partigiani che combattevano per la libertà futura del popolo italiano e coloro che difendevano non soltanto il fascismo, ma che addirittura svendevano al nazismo quella Patria di cui oggi tanto si riempiono la bocca certi storici pataccari.
Questi italiani e futuri beneficiari di medaglia e pensione, occorre non dimenticare e ribadire sempre che combatterono a fianco delle truppe tedesche, rendendosi autori e complici delle innumerevoli stragi che insanguinarono l’Italia nei 20 mesi successivi all’8 Settembre 1943 e fino alla Liberazione.
Un’operazione di cancellazione della memoria, che nulla ha da spartire con la pacificazione e con la memoria condivisa, iniziata già da diversi anni con il tristemente famoso discorso di insediamento dell’allora Presidente della Camera Violante, proseguita indiscriminatamente con volgari sparate da parte di ex e neofascisti nostalgici e benedetta dalle prediche dello scrittore Pansa, con il suo continuo ed ormai stucchevole esercizio di denigrazione della Resistenza.
Dobbiamo ricordare ora e sempre che la Repubblica italiana e la Costituzione sono nate dalla lotta di Liberazione antifascista, alla quale aderirono gli italiani di diverse ideologie politiche, di diversa condizione sociale, di diversa fede religiosa, vivendo di privazioni, combattendo sui monti e nelle valli, senza alcun tornaconto economico, a differenza dei militi della Rsi, che invece percepivano uno stipendio e venivano alloggiati e nutriti nelle caserme. E ricordiamo inoltre le migliaia di italiani internati in Germania dopo l’8 settembre 1943, che rifiutandosi di ritornare in Italia per combattere nella Repubblica di Salò, vennero sterminati fino alla fine della guerra nei campi di concentramento. Meritano davvero di essere paragonati a quanti li mandarono a morire in simili condizioni?
Ai “signori della destra” è forse troppo chiedere di avere una memoria storica della Resistenza, ma di avere se non altro il rispetto di tutte le vittime della violenza nazifascista e del sacrificio di quanti lottarono per sconfiggere una folle idea di morte, grazie ai quali oggi possono godere di ogni tipo di beneficio, compresa la sfacciataggine di pretendere una medaglia per coloro che violentavano, torturavano e trucidavano in nome del fascismo e per conto del nazismo.

* ANPI Reggio Emilia

27 gennaio 2009

IL GIORNO DELLA MEMORIA
Ricordare non è solo dolore, ma un dovere

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Absolutely Not in Their Name, Not in Ours
(Assolutamente No! Non nel loro nome, Non nel nostro)
 Michael Warschawski
 Alternative Information Center (AIC)


Ehud Barak, Tzipi Livni, Gabi Ashkenazi e Ehud Olmert non osate  mostrare la faccia durante una ceremonia per commemorare gli eroi del ghetto di Varsavia,  Lublin, Vilna o Kishinev. E neanche voi dirigenti di Peace Now, per cui la pace significa la pacificazione della resistenza palestinese, con ogni mezzo, incluso la distruzione di un popolo. Se ci sono, io stesso farò il possiblile per espellervi da questi eventi, perche la vostra presenza sarebbe un sacrilegio immenso.

Non nei loro nomi


Non avete diritto di parlare in nome dei martiri del nostro popolo.
Voi non siete Anna Frank del lager di  Bergen Belsen, ma invece Hans Frank, il generale tesdesco che agì per affamare e distruggere gli ebrei di Polonia.


Non rappresentate nessuna continuità con il ghetto di Varsavia, perché oggi il ghetto è qui davanti a voi, il bersaglio dei vostri carri armati e la vostra artiglieria, e si chiama Gaza. Gaza, che voi avete deciso di eliminare dalla carta, come il generale Frank voleva eliminare il ghetto. Ma a differenza dei ghetti di Polonia e Bielorussia, dove gli ebrei sono stati abbandonati da quasi tutti, Gaza non sarà eliminata perche millioni di uomini e donne da tutto il mondo stanno costruendo uno scudo umano potente che porta due parole: Mai Più

Not in Our Name!


Insieme a decine di migliaia di ebrei dal Canada alla Gran Bretagna, dall' Australia alla Germania, vi avvertiamo: non osate parlare a nome nostro perché vi perseguiremo anche, se necessaro, all'inferno dei criminali di guerra, e ricacceremo le vostre parole giù per le vostre gole, fino a farvi chiedere perdono per averci coinvolto nei vostri crimini. Noi, e non voi, siamo i figli di  Mala Zimetbaum e Marek Edelman, di Mordechai Anilevicz e  Stephane Hessel, e portiamo il loro messaggio all'umanità per tutelare la resistenza di Gaza:
"Lottiamo per la nostra libertà e la vostra, per il nostro orgoglio e il vostro, per la nostra dignità umana, sociale, e nazionale e la vostra" (Appello dal Ghetto al mondo, Pasqua, 1943)

Ma per voi, i leaders di Israele, "libertà" è una parola  sporca. Non avete nessun orgoglio e non capite il significato della dignità umana.

Noi non siamo "un'altra voce ebrea", ma invece l'unica voce ebrea capace di parlare a nome dei martiri torturati del popolo ebreo. La vostra voce è nient'altro che i vecchi clamori bestiali degli assassini dei nostri antenati.


Traduzione di Luisa di Gaetano – 24 Gennaio 2009




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SI RINGRAZIANO TUTTI I SITI CHE HANNO MESSO A DISPOSIZIONE QUESTE IMMAGINI



New.gif  Dopoguerra: sI riaccendono le luci sul passato

Zone d’ombra nella storia

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L’uscita in Italia dell’ultimo film di Spike Lee “ Miracolo a Sant’Anna “, con il suo strascico di accese polemiche, ha sottolineato come ad oltre 60 anni di distanza, le storie legate alla Resistenza italiana e alla Seconda Guerra Mondiale, siano ancora e fortunatamente, un tema per molti sacro e intoccabile. Un segnale importante in un frangente dove trovano nuova linfa i tentativi di un uniformante revisionismo storico.   
Aldilà dei singoli giudizi sulle posizioni emerse dalla discussione, alla pellicola del regista americano va comunque riconosciuto il merito di aver riacceso le luci della memoria sulla tragedia di Sant’Anna di Stazzema, una delle pagine simbolo della Resistenza ma ancora oggi sconosciuta a tanti giovanissimi e meno giovani. Una falla nella nostra memoria storica collettiva, una zona d’ombra illuminata solo in epoca recente grazie all’impegno di singoli uomini nella ricerca della verità.
 Il massacro di 560 civili in quella mattina del 12 agosto 1944, unito a quello di altre migliaia e migliaia di nostri connazionali in altre stragi, ha rischiato di cadere per sempre vittima di chi cercò di occultare i crimini nazifascisti commessi in Italia nel periodo 1943-45.
Esistono anche altre verità che si è cercato di nascondere, verità scomode ma ugualmente terribili. Parliamo dei crimini di guerra che circa nello stesso periodo i nostri militari in Grecia, come in Jugoslavia, commisero sui civili dei paesi occupati. Orrori e delitti del tutto simili a quelli visti in Italia: la follia omicida come un virus contagioso accomunò reparti dell’esercito fascista alle truci SS.
Azioni nefande che con diverse modalità ma con il medesimo fine, si è cercato di nascondere alla storia, perché l’opera di chi intende lasciare nell’ombra i fardelli del passato è senza tempo.



12 agosto 1944

L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema

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Crimine contro l’umanità

L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema è una delle più orribili stragi che l’occupazione nazista ci ha lasciato in eredità. Fu un vero crimine contro l’umanità ad opera dei tedeschi del 16° battaglione SS della 16. SS-Freiwilligen-Panzergrenadier-Division "Reichsführer SS", con a capo il maggiore Walter Reder (1915 - 1991) il 12 agosto 1944 e continuato in altre località fino alla fine del mese. Sant’Anna è un piccolo paese sulle Alpi Apuane, in provincia di Lucca, al confine con quella di Massa Carrara. Ai primi di agosto del 1944 la sua popolazione era di molto cresciuta in quanto essendo la zona circostante definita “ zona bianca “, ossia adatta ad accogliere sfollati provenienti dalle aree vicine. I partigiani operanti nel territorio si erano da alcuni giorni allontanati, senza effettuare attacchi ai tedeschi, e anche questo contribuiva a rendere la zona meno soggetta ad azioni militari.
I fatti di quel giorno
Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto ’44, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle, sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era già circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide, la maggior parte degli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di tre ore vennero massacrati 560 innocenti, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano, compiendo atti di efferata barbarie. Infine il fuoco, a distruggere e cancellare tutto. Le testimonianze dei sopravissuti dipingono un orrore inaudito. Questa è quella di Luigi, il cui cognome non ha importanza perché la sua storia è identica a quella di tutti coloro che oggi ancora possono parlare di quel giorno: “ Avevo 11 anni Avevo undici anni. Ho assistito al massacro di mio padre e dei miei cinque tra fratelli e sorelle, la più piccina aveva tre anni. I carnefici appartenevano alla 16a Divisione Panzergrenadier SS, tra loro alcuni italiani arruolati e collaborazionisti...". Un altro episodio dell'eccidio fu il massacro della famiglia di Antonio Tucci, un ufficiale di marina che lavorava a Livorno, ma originario di Foligno, che aveva condotto la sua famiglia a Sant'Anna di Stazzema. In questa strage morirono 8 dei suoi figli (la cui età andava dai pochi mesi ai 15 anni) e la moglie. Soltanto lui si salvò perché in servizio a Livorno.
Nel coro quasi una unanime dei ricordi, emerge una frase comune a tanti, che più di altre può ricondurci a quel orrore: “…il sangue scorreva a rivoli nelle strade, come in un mattatoio “.
Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spingevano in comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca, nella zona di San Terenzo. Nel giro di cinque giorni uccidevano oltre 340 persone mitragliate, impiccate, addirittura bruciate con i lanciafiamme. Nella prima metà di settembre, con lo sconfino del massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portavano avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido venivano fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), e per finire a Bergiola e a Forno i nazisti facevano circa 200 vittime. Risalendo l’Appennino verso nord avrebbero continuato la strage con il massacro di Marzabotto.


Un silenzio durato 50 anni

Sui responsabili di quel giorno piomba un silenzio lungo 50 anni. Poi nel maggio del 1994, la scoperta quasi casuale di una montagna di dossier nascosti in un vecchio armadio della sede della Procura Militare a Roma, riaccende la speranza. Riemergono i fascicoli occultati delle stragi nazifasciste commesse in Italia del biennio 1943-45 incluso quello relativo a Sant’Anna. Molti anni di accese polemiche e dure battaglie civiche attendono chi reclama giustizia per questa strage.
Il 25 aprile del 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, celebra la prima festa di liberazione del suo mandato proprio a Sant’Anna di Stazzema. Il suo viso commosso dinanzi all’ossario celebrativo delle 560 vittime di cui un centinaio bambini, si diffondono in tutto il mondo. Un gesto importante che alimenta la speranza solo per breve tempo. Il paese toscano divenuto il simbolo di una giustizia negata, rialza la testa davanti al silenzio che torna a calare. Il sindaco di Sant’Anna Gian Piero Lorenzoni, fondatore del Comitato per la Verità e Giustizia sulle stragi nazifasciste, temendo un nuovo insabbiamento ad opera del Parlamento, rilascia interviste ai media nelle quali minaccia la riconsegna al Presidente Ciampi, della Medaglia d’oro al Valor Militare, ricevuta nel 1971, dall’allora capo del governo Emilio Colombo. Una dichiarazione che pare ottenere l’effetto sperato.
L’8 ottobre del 2003 le due camere approvano l’istituzione di una “ Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti “.
Sempre nell’ottobre del 2003, il celebre fotografo Oliviero Toscani pubblica un libro di scatti sugli sguardi dei bimbi sopravissuti a Sant’Anna ora anziani. Una pubblicazione dall’alto valore artistico e storico, una sequenza di struggenti immagini che colpisce a fondo la sensibilità di molti italiani. Quegli occhi raccontano e trasmettono tutto l’orrore e la rabbia impressa il 12 agosto di quasi 60 prima.


Il processo

Il 60esimo anniversario dell’eccidio si trasformerà in una data storica: grazie ai nuovi elementi emersi dalle indagini avviate nel 2002 dal procuratore militare Marco De Paolis, il 20 aprile del 2004 prende il via presso il Tribunale Militare di La Spezia, il processo ai presunti colpevoli della strage di Sant’Anna. Sul banco degli imputati una decina di ex ufficiali nazisti, solo coloro con responsabilità di comando, tutti ultra ottantenni. Per la loro identificazione vengono interrogati decine di ex ufficiali e coinvolte autorità di paesi stranieri. Alcuni ufficiali tedeschi racconteranno i dettagli degli orrori commessi manifestando un gelido distacco irriverente, dove i particolari delle uccisioni e torture, si ridimensionano a comuni disposizioni militari da eseguire.
 Il procedimento di La Spezia si svolge in un clima di profonda tensione emotiva. Nel corso di quelle udienze i sopravissuti e i parenti delle vittime, devono ripercorrere un doloroso cammino a ritroso nel tempo, per riportare alla luce atrocità che nei decenni non hanno mai smesso di sanguinare. Si tratta a volte di lacrime liberatorie, perché finalmente dopo oltre 60 anni un organo della giustizia italiana è lì ad ascoltare. In altri momenti  ricordare comporta uno sforzo insostenibile, e accade che le udienze devono essere sospese, perché chi deve deporre non riesce a soffocare l’angoscia che lo assale. Riemergono i fatti, la dinamica della strage. Testimoni riferiscono che anche diversi italiani parteciparono al rastrellamento dei civili: li riconosceranno per l’accento locale in quanto protetti da maschere per non essere riconosciuti. L’intera operazione emerge come ampiamente pianificata da tempo, e non a rappresaglia di azioni partigiane come si è cercato di far credere per decenni.
La sentenza finalmente giunge alle 19:38 del 22 giugno 2005 per bocca del Presidente Franco Ufilugelli: la corte di La Spezia condanna 10 ex ufficiali tedeschi all’ergastolo. La folla assiepata in quella aula resa rovente da una giornata caldissima, esplode in un pianto liberatorio. Lacrime di gioia e di rabbia si fondono nell’abbraccio di chi ha atteso questo momento da una vita. Nello sguardo si legge una dignità finalmente riconosciuta, l’incredulità per una sentenza temuta sino alla fine, ma non scompare l’amarezza per una condanna a 10 vecchietti un giorno assassini, che non pagheranno mai per quanto hanno commesso. Di grande valore le parole a commento della sentenza del procuratore De Paolis: “ …chiedo scusa perché la giustizia è arrivata tardi. E' vero queste persone condannate non sconteranno la pena, ma almeno faranno i conti con la loro coscienza “.
Anche su questo punto molti dei presenti conservano molti dubbi. L’unica certezza è che nessuno di questi uomini ha mai esternato alcuna forma di pentimento, se si esclude il soldato semplice Goring, che pur non denunciando mai i compagni di quei giorni, pare abbia chiesto scusa.
Nel novembre del 2007, la Cassazione di Roma conferma la sentenza d’Appello che aveva nel frattempo ridotto il numero degli imputati condannati alla massima pena, e alla fine la giustizia italiana dopo 63 anni, riconosce l’ufficiale Gerhard Sommer e i sottufficiali nazisti Georg Rauch e Karl Gropler, colpevoli di eccidio premeditato.
Per tutti ribadita la condanna a vita, ma nessuno di loro trascorrerà un solo giorno in carcere.

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Una stanza buia nell’anima

Pur conclusasi senza una effettiva condanna, la sentenza si eleva a simbolo per l’intera resistenza italiana, come accadde per le Fosse Ardeatine e Marzabotto. Resta il peso per una giustizia tardiva, negata nella sua essenza, figlia di una volontà precisa. Nell’ascoltare le deposizioni dei sopravissuti e dei parenti delle vittime, si diviene testimoni di un dolore universale, assoluto, quel dolore senza tempo antico come l’uomo, che segna indelebilmente chi porta la morte nel cuore per ogni suo giorno che rimane da vivere. Centinaia di vite private dell’amore dei genitori, dell’abbraccio dei figli. Uomini e donne a reclamare un amore mai ricevuto, costretti a soffocare un affetto mai donato, cercando di sfuggire alla morsa del rimpianto per ciò che poteva essere e non è mai stato. Una immensa stanza buia dell’anima mai illuminata dalla luce.
Ciò che la guerra lascia in eredità, è soprattutto questo.




I dossier sui responsabili degli orrori nazifascisti rinvenuti a 50 anni di distanza

La memoria sepolta

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Uno scuro custode di immane dolore

E’ il maggio del 1994 quando un procuratore di Roma, Antonino Intelisano, indagando tra gli archivi della magistratura militare alla ricerca di elementi utili per il caso Priebke, si imbatte in una enorme e sconosciuta pila di fascicoli. Da quel momento lo scrittore giornalista Franco Giustolisi, storica firma dell’ “ Espresso “ e del “ Giorno “, ripercorre uno ad uno quegli episodi riemersi dal passato e al termine di una inchiesta durata oltre 8 anni, riporta alla luce il tragico elenco dei crimini commessi da SS e soldati fascisti della Repubblica di Salò, nel biennio ’43-45. Una lista di orrori commessi in larga misura su civili inermi, donne, vecchi, bambini, oppure sui soldati italiani disarmati sparsi per l’Europa che dopo l’8 settembre 1943, scelsero di arrendersi e non schierarsi con i tedeschi.
Un indice composto da 695 fascicoli, ( 415 dei quali con precise indicazioni su nome e grado militare dei colpevoli), suddivisi in 2273 pratiche. Una catalogazione precisa e ordinata, effettuata dopo la fine della guerra dalle forze alleate. Viene inviato il dettagliato risultato delle indagini alla procura militare perché la giustizia restituisse dignità alle vittime e ai sopravvissuti. Una giustizia che come vedremo arrestò presto il suo corso, congelandosi per 50 anni. Giustolisi narra che la mole di documenti era rinchiusa in un armadio posto in un recondito sottoscala di un antico palazzo del cinquecento di Roma ( Palazzo Cesi ), in via Acquasparta.  Un vecchio armadio pieno di tarli, posto in un anfratto protetto da un cancello, con le ante chiuse a chiave e rivolte verso il muro, quasi che la vergogna contenuta al suo interno, cercasse in ogni modo di celarsi alla vista del mondo. Lo scrittore non vide mai quello scuro custode di tanto dolore: questo sparì dopo che i magistrati ne scoprirono il contenuto.
Un opera dal valore inestimabile

Nel 2004 Franco Giustolisi presentò al mondo il frutto del suo lavoro contenuto in un durissimo e meraviglioso libro di storia, di memoria , di denuncia. Uno scritto da leggere con le lacrime agli occhi, con la rabbia che ti assale lo stomaco fino a contorcerlo. Le pagine sono scolpite dalla morte di semplici uomini e donne, innocenti bimbi e fragili anziani; sono intrise del sacrificio assurdo di civili e militari che chiedevano solo di sopravvivere all’orrore di una guerra terribile. Leggendo quelle righe, alla nausea per tanta gratuita crudeltà, si somma l’amarezza e la vergogna che giunge dal vivere in un paese dove per l’ennesima volta il bisogno di verità di chi lo popola, è immolato sull’altare degli interessi di Stato, ovvero di pochi potenti.
Giustolisi intitola la sua opera proprio  “ L’armadio della vergogna “ e la copertina fu dedicata ad una foto scattata nel cortile della scuola di Sant’Anna di Stazzema, mentre un girotondo di bimbi festeggia la fine dell’anno scolastico. Alcune settimane dopo, tutti quei bambini verranno trucidati a colpi di mitragliatrice e bombe a mano.
Attraverso l’esame di ogni fascicolo, si compie un resoconto storico dal valore inestimabile di tutte le stragi naziste del post armistizio, da Marzabotto alle Fosse Ardeatine,da Barletta a Matera, passando per Pietransieri, per Conca della Campania, la Storta, Sarnano, Casalecchio di Reno, Leonessa, Farneta, Gubbio, Sant’Anna di Stazzema…includendo il massacro di nostri militari inermi come a Cefalonia, Rodi, Spalato, Coo.


Un lungo elenco di orrori

 Questo lungo filo di crimini che attraversò l’Italia da nord a sud, fino a toccare tutti gli angoli dove la follia fascista trascinò i nostri militari, costituisce un omaggio tardivo alla memoria delle 15-20 mila vite umane, che per difetto si stima furono spezzate per ordine di ufficiali nazisti e repubblichini di Salò. Riemergono per imprimersi  nella nostra memoria i 560 civili sterminati a Sant’Anna di Stazzema, con le immagini del ricordo di Evelina che lì venne sventrata con le baionette, il tutto per strappargli dal ventre il feto del suo bimbo mai nato e sparargli in testa; i 995 morti di Marzabotto ( 1830 se si includono i borghi vicini ) dove il parroco si rifiutò di avere salva la vita per non lasciare soli i suoi fedeli; le 500 vittime di Fivizzano ( Massa Carrara ), dove ne vennero impiccati una parte con il filo spinato, e a fianco dei loro corpi abbandonati fu lasciato un cartello che diceva “ Chi seppellirà i cadaveri sarà passato per le armi “; i 39 poveri contadini che a Conca della Campania intrisero a tal punto il terreno con il loro sangue, che dal racconto della figlia di uno di loro “ L’anno dopo l’erba spuntò rossa “; i civili utilizzati come scudi umani per proteggersi dagli attacchi dei partigiani e degli alleati a Godenzo ( Treviso ), dove chi non riusciva a camminare veniva fucilato per strada; o i 185 cittadini di Sant’Angelo di Godigo, assassinati dopo una estenuante marcia a scudo dei nazisti in ritirata; le centinaia di nostri soldati che a Cefalonia dopo la loro resa, vennero lanciati in mare con le mani legate o mitragliati a gruppi.
Sono solo brevi cenni di questo lungo elenco di orrori. Delitti i cui responsabili sono stati intenzionalmente nascosti per 50 anni.


La memoria sepolta

Perché la procura militare si arrestò? Per quale motivo una giovane democrazia appena uscita dal tunnel di una ventennale dittatura, scelse di porre una pietra tombale sul bisogno di giustizia dinanzi a simili crimini?
E dire che in molti casi i rapporti allegati erano talmente ricchi di particolari, da indicare il nome e il grado di chi ordinò i rastrellamenti, di chi ordinò le fucilazioni, le torture, le deportazioni, fissando a chiare lettere e per sempre,  coloro che stabilirono quali indifesi civili strappati alle loro case, dovevano morire.
Lo sforzo investigativo era già compiuto, bastava conservare la volontà politica di perseguire colpevoli ancora raggiungibili e latitanti identificabili, avvalendosi di numerosi testimoni ancora vivi per i riscontri. L’iniziò sembrò buono forse perché congiunto con le autorità militari britanniche: fino al 1947 il materiale ricevuto dalla procura militare determinò condanne per 49 procedimenti, tra cui quello per la strage delle Fosse Ardeatine. Da quel anno le autorità alleate lasciarono la competenza alle sole italiane. A parte la condanna di Walter Reder per l’eccidio di Marzabotto del 1951, il trascorrere del tempo azzerò i lavori.
 Nella ricostruzione di Giustolisi le responsabilità furono appunto politiche, e andarono ben oltre le omissioni dei procuratori militari che si susseguirono dopo il 1945, (Umberto Corsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce ), che vennero comunque riconosciuti colpevoli dalla commissione d’inchiesta del CSM nel 1999, istituita dopo lo scandalo a seguito della scoperta dei fascicoli. Venne impartito quindi un vero ordine di occultamento perché i nuovi scenari dell’Europa post bellica, imponevano ragion di Stato attente ai delicati equilibri dello scacchiere internazionale. La guerra fredda con le sue rigide barriere esigeva alleanze compatte, e “ vecchi alleati diventano nuovi nemici “, così come “ vecchi nemici sono nuovi alleati “. La Germania Occidentale era ora una pedina chiave del Patto Atlantico. Il Governo italiano ritenne poco opportuno, forse dietro eminente consiglio Nato, rispolverare centinaia di nomi tedeschi da sottoporre a interminabili ed eclatanti processi per crimini di guerra. Esisteva poi una lista di ex militari fascisti che nazioni come Francia, Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss erano impazienti di estradare nei loro paesi per assoggettarli al medesimo trattamento. Nessuno ebbe mai conferma di uno scambio non dichiarato, ma non si dimentichi che nell’immediato dopo guerra, furono diversi i casi di ex fascisti, incaricati a vario titolo di vestire cariche pubbliche. Come giustificare agli occhi dell’opinione pubblica un loro coinvolgimento anche solo indiretto? Come poteva un paese chiave dell’alleanza atlantica consegnare suoi “ cittadini “oltre cortina?
Non poteva…quindi prese tempo, tergiversò, insabbiò.
  Lo scrittore fa emergere tra i politici coinvolti i nomi del ministro della Difesa il liberale Gaetano Martino, il democristiano Paolo Emilio Taviani ( ex Partigiano ) ministro degli Esteri, e quello meno direttamente implicato di Giulio Andreotti. Tutti prestavano servizio nel primo Governo del futuro presidente della Repubblica Antonio Segni ( 1955 -1957 ), ma inevitabilmente pesanti indizi di responsabilità gravano sui governi di Alcide De Gasperi dal 1947. Un altro aspetto che acuisce l’indignazione collettiva è stato lo scoprire che questi dossier non furono chiusi in un antro mai più riaperto per tutti questi anni. L’armadio venne consultato, i documenti rivisitati, aggiornati, ma nessuno anche a distanza di decenni e a guerra fredda conclusa, si espose per consentire che a quelle vittime venisse restituita la dignità della memoria.  Su diversi fascicoli si leggerà un timbro datato 1960, che porta la dicitura “ archiviazione provvisoria “, un “ istituto sconosciuto in ogni angolo del mondo e creato per l’occasione “ commenterà il giudice Giancarlo Caselli nel 2004.
Una vera opera di deliberata sepoltura della memoria.

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Una battaglia per la giustizia negata

Franco Giustolisi non terminò la sua opera con la pubblicazione del libro, ma divenne una sorta di riferimento nazionale in questa battaglia per l’affermazione anche se tardiva della giustizia negata. Diverse comunità d’Italia teatro di quegli orrori e di altri non inclusi nei fascicoli dell’armadio della vergogna, si unirono in coro. L’opinione pubblica fu scossa, ma in molti anche a sinistra, cercarono di gettare acqua sul fuoco: alla progressiva azione di revisionismo da destra, si abbinò una conciliante posizione da sinistra.
L’8 ottobre del 2003 le due camere del nostro Parlamento approvano l’istituzione di una “ Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti “: un successo che però Giustolisi stesso raffreddò per la scarsa e giustificata sfiducia che mostrava nelle sue reali capacità di raggiungere il fine per cui era stata creata.
Quanto emerse dall’armadio della vergogna, risultò determinante per l’istituzione del processo per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema che prese il via 20 aprile del 2004 presso il tribunale militare di La Spezia. La sentenza in primo grado del 22 giugno 2005, venne ribadita dalla Corte d’Appello di Roma del 2006 e dalla Cassazione del 2007: eccidio premeditato.
Vennero condannati all’ergastolo 1 ufficiale e 2 sottoufficiali ex nazisti, tutti in contumacia, tutti ultra ottantenni, nessuno trascorse 1 solo giorno di carcere.
Il recente processo di Sant’Anna, ha dimostrato che la condanna dei colpevoli era largamente possibile.
Invece, mentre tutto questo non accadeva, associazioni più o meno segrete, anche con l’avvallo di diversi governi sparsi per il mondo, collaborarono a dare rifugio a diversi criminali di guerra in ogni angolo del pianeta.
Immaginiamo poi il significato di decine di altri processi se effettuati negli anni dell’immediato dopoguerra: avrebbero donato una eredità preziosa alle generazioni future, e una dignità alla memoria delle vittime. Si poteva parlare di uno Stato che aveva imparato dai suoi errori, che intendeva veramente voltare pagina. Non fu così. Sin dai primi passi, questa giovane democrazia ha iniziato a occultare verità al suo popolo, avviandosi verso un sentiero lastricato di tante altre scure pietre dello stesso tipo.




Nel 1943 in Grecia e nella ex Jugoslavia i reparti  italiani imitarono le SS

Da Sant’Anna a Domenikon

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Una verità scomoda

Nel biennio 1943-45, si sono scritte alcune delle pagine più terribili della nostra storia. I valori della Resistenza si elevarono dalle macerie di una nazione dilaniata dal conflitto e lacerata nella carne. Le gesta eroiche dei partigiani con il loro sacrificio, si alternarono agli eccidi di massa di inermi civili, martiri della follia nazista. Nel medesimo periodo, altri italiani erano impegnati nella stessa guerra che divampava nel mondo intero, ma sul fronte opposto.
Parliamo dei soldati dell’esercito italiano, che al fianco dei tedeschi combattevano dai Balcani alla Grecia fino in Russia. Italiani questa volta schierati tra gli occupanti di un altro paese. Per gran parte di noi, la maggioranza delle storie che provengono da quei giorni al riguardo dei nostri soldati, ci raccontano di un militare occupante diverso, lontano dallo stereotipo di crudeltà nazista. Spesso si è parlato di un esercito che cercava di fraternizzare con gli occupati, di una autorità più sensibile ai diritti umani dei civili viventi nei territori invasi. La storia ci consegna però una verità amara e scomoda, perchè prima dell’8 settembre del ’43 come dopo, i nostri militari si resero responsabili di atti del tutto simili a quelli che resero tristemente celebri le SS tedesche nel nostro paese.
Episodi che strumentalmente si è cercato e si cerca tuttora di occultare all’opinione pubblica. Momenti che volenti o no fanno parte del nostro passato e come tali, possono essere superati solo se affrontati con limpida trasparenza, affinché le riflessioni sulle atrocità che la guerra comporta, trascendano ogni ideologia.


L’eccidio di Domenikon

Era il febbraio del 1943 e gli italiani occupavano la Tessaglia, una regione della Grecia che si affaccia sul Mar Egeo. A Domenikon come ad Elassona, fino ad allora i soldati amoreggiavano con le donne del posto, rimanevano qualche ora e se ne andavano. Ragazzi dall’aspetto bonario, “ dei dongiovanni “ narrava un contadino della zona. Il 16 di quel mese le cose cambiarono. Qualche giorno prima i partigiani greci attaccarono un reparto italiano a circa un chilometro da Domenikon: nello scontro a fuoco rimasero uccisi nove nostri soldati. “ Per dare a tutti una salutare lezione “, come scrisse dopo il Generale Cesare Benelli si ordinò per risposta l’aggressione della comunità civile e non un’azione militare contro i gruppi partigiani.
L’eccidio di Domenikon “ …è un crimine italiano dimenticato “, come scrive Enrico Arosio in un numero dell’Espresso del marzo 2008. Fu il primo di una serie di massacri in terra greca, un modello ispirato allo stile nazista, anche se per molti versi gli italiani mancarono nello stile scientifico che le SS misero in mostra in decine di località italiane. Il villaggio venne circondato nel primo pomeriggio dagli uomini della divisione Pinerolo. La popolazione venne rastrellata e radunata nella piazza centrale. Sul centro abitato piombarono i caccia dal cielo. Vennero rase al suolo le case, incendiati i fienili, ucciso il bestiame. Alcuni sopravissuti che capivano l’italiano compresero ciò che stava per accadere, perché in preda ad una furente follia, i soldati urlavano “ Vi bruceremo tutti “.
Al tramonto le famiglie di Domenikon vennero condotte fuori dal paese, dove si separarono le donne e i bambini dagli uomini maggiori di 14 anni. All’una di notte del 17 febbraio i secondi vennero fucilati uno dopo l’altro nel giro di un’ora. Nel corso della nottata e delle prime ore del giorno seguente, a Domenikon vennero massacrate 150 persone.


Una nuova politica d’invasione

Nel tentativo di alienare il movimento partigiano greco, il generale Carlo Geloso comandante delle truppe italiane di occupazione, diramò una circolare dove si ordinava la distruzione delle comunità locali. Un sistematico giro di vite nella conduzione della politica di invasione, diretta a stroncare la responsabilità collettiva nell’appoggio ai sovversivi.
Rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e distruzione delle riserve agricole e alimentari, come del bestiame, divennero il fulcro delle azioni militari dei soldati fascisti. Alla strage di Domenikon, fecero eco i 60 civili uccisi a Tsaritsani circa un mese dopo, come gli eccidi compiuti a seguire a Domokos, Farsala, Oxinià.
Un lungo elenco di crimini di cui non esistono immagini, giunte fino a noi solo grazie alle testimonianze dei sopravissuti. Negli archivi militari vengono sepolti stupri di massa e violenze perpetrate sui civili, tanto che persino il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare nei confronti dei vertici dell’esercito italiano.
Uno spirito di emulazione verso gli alleati germanici, contagiò le autorità italiane anche nell’amministrare i campi di prigionia. A Larisa, in un grande  campo di concentramento a nord di Volos, più di un migliaio di prigionieri greci venne fucilato per rappresaglia, e molti altri morirono per fame, malnutrizione, epidemie. Fino al settembre del ’43 circa i due terzi della Grecia erano occupati dagli italiani, e gli abusi sulla popolazione innocente risultò una costante. Il granaio greco della Tessaglia fu ridotto in rovina a causa di confische e saccheggi. Il mercato nero subì un’impennata e venne ridotta a soli 30 grammi al giorno la razione di pane distribuita. Se già due anni prima nell’inverno del 1941, la miseria provocata dalla gestione italiana aveva provocato tra i 40 e 50 mila morti, le cifre dei civili che persero la vita per fame e malattie, lungo l’intero periodo di occupazione, si stimarono tra i 200 e 300 mila. Un capitolo poco conosciuto dei crimini a danno della popolazione è quello legato alla prostituzione: migliaia di donne affamate riempirono i bordelli dove soldati e ufficiali italiani trovavano svago. Nel 1946, secondo un censimento fatto dal ministero greco della Previdenza sociale, oltre 400 villaggi erano stati distrutti in modo parziale o totale: 200 ad opera dei militari tedeschi, 200 per mano dell’esercito italiano.


Un buco nero della storiografia

Oggi tutto questo è riproposto nel film documentario “ La guerra sporca di Mussolini “, diretto da Giovanni Donfrancesco, prodotto congiuntamente della GA&A Productions di Roma e della tv greca Ert. Il film è stato trasmesso il 14 marzo del 2008 da History Channel di Sky, e la Rai guarda caso, ha bellamente ignorato il progetto. Un lavoro realizzato grazie al risultato delle recenti ricerche della storica Lidia Santarelli, che all’ “ Espresso “, definisce questa odiosa pagina dell’Italia fascista, come “ Un buco nero della storiografia “. Insegnante al Centre for European and Mediterranean Studies della New York University, la Santarelli afferma come i massacri italiani in Tessaglia, Epiro, Macedonia, costituiscano porzioni di storia occultata, perché cosa combinarono i soldati di Mussolini nella campagna di Grecia lo conoscono in pochi. Film come “ Mediterraneo “, o la rievocazione del massacro della Divisione Acqui del Generale Gandin a Cefalonia, come anche“ Il mandolino del Capitano Corelli “, hanno distorto la percezione complessiva di quanto accadde. Le esecuzioni di massa di migliaia di nostri militari senz'armi sono anch’esse storia, e in alcuni casi le affermazioni degli abitanti di quelle regioni, confermarono che tanti italiani erano brava gente.
Ma le parole dei sopravissuti ai massacri, le confessioni di nostri soldati, le immagini degli abitanti di Atene morti di fame e gettati come cenci ai lati delle strade, ci riconsegnano una verità sconosciuta ai più, anche per il decennale silenzio di chi ha omesso crimini e colpevoli per interessi di parte.


Dolorose riflessioni

Uno degli studiosi più preparati in materia di barbarie tedesche in Italia, lo storico Lutz Klinkhammer, afferma “…la leggenda del bravo italiano non è completamente inventata. Ciò che è inventato è che tale immagine fosse l’aspetto dominante nell’occupazione di quei territori “. Klinkhammer proseguendo, ricorda come le esecuzioni italiane in Slovenia nella provincia di Lubiana, furono della stessa portata delle fucilazioni tedesche nel nord Italia nel post 8 settembre. Un numero superiore ai 100 mila slavi, varcarono i campi di concentramento italiani nella ex Jugoslavia. I cadaveri scheletrici mostrati dal film nell’isola di Rab, sono una frazione di quel 20 per cento di prigionieri di cui si stima la morte.
Un risultato complessivo, frutto dell’applicazione delle linee guida elaborate dal generale Roatta che mise in atto la strategia del “ testa per dente “.
L’esercito di Mussolini, prosegue lo storico, aveva già messo in mostra il suo modello di occupazione, con il “ programma di eliminazione “ attuato in Nord Africa, dove utilizzò i gas contro i civili nelle invasioni in Etiopia e Cirenaica.


Una rimozione storica e di coscienze

Nel 1945 Badoglio e Graziani, vennero inseriti nell’elenco dei criminali di guerra per le autorità etiopi, così come i generali Roatta, Ambrosio, Robotti e Gambara, per quelle di Grecia e Jugoslavia. La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra a Londra, ricevette nel dopoguerra un elenco di oltre 1500 episodi a carico di italiani, ma tutti finirono insabbiati. Ancora una volta gli interessi nazionali garantirono l’impunità a decine di criminali.
Il delinearsi di una Europa sempre più divisa e arroccata su due blocchi, indusse i paesi occidentali a cementare il fronte comune contro la minaccia portata da Stalin. L’Italia guidata da De Gasperi, diviene una pedina strategica dello schieramento atlantico, e chiesero agli Stati Uniti di prender tempo in merito ai processi internazionali che vedevano anche illustri nostri connazionali sul banco degli imputati. L’influenza britannica ammorbidì le richieste dei greci, e alla fine l’Italia rinunciò a pretendere l’estradizione dei criminali nazisti: la stessa cortesia fu ricambiata da Grecia, Francia e Inghilterra.
Su migliaia di morti innocenti, calò per sempre il silenzio e la guerra fredda garantì un indulto collettivo. Intere pagine di storia vennero sospinte a forza in oscuri meandri. L’opera di occultamento risultò così ben congeniata, che in molti conosceranno solo a oltre 60 anni di distanza, l’esatto svolgimento di tanti episodi che coinvolsero i nostri connazionali. Una rimozione di eventi che ha azzerato le coscienze, e in diversi oggi reagiscono con irritata incredulità, nell’apprendere che l’italiano in guerra non è stato solo partigiano, eroe, martire o bonario soldato, ma anche uno spietato carnefice.  
Se questo documentario ha contribuito a ridare dignità alle tante vittime innocenti dimenticate, molti greci non conoscono ancora quanto avvenne in quelle regioni. Domenikon fu riconosciuta città martire solo nel 1998 e non è mai divenuta patrimonio della memoria collettiva del suo paese, come ad esempio lo è per noi Marzabotto. Nessun processo è stato istituito e alcun criminale di guerra mai condannato.

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Anche Sant’Anna di Stazzema per decenni ha condiviso con Domenikon il triste destino di chi può affidare solo alla memoria dei suoi abitanti, il compito di mantenere in vita il ricordo dei suoi martiri.
Che da Sant’Anna, quel filo di speranza per una giustizia tardiva per le vittime ma preziosa per la memoria e la coscienza delle generazioni che verranno, possa finalmente raggiungere anche Domenikon.
 



INDEGNA ESTERNAZIONE LE DICHIARAZIONI DEL MINISTRO LA RUSSA


“L’indegna esternazione del ministro La Russa è l’ultima conferma, in ordine di tempo, di quanto sia stata effimera e strumentale la cosiddetta “svolta di Fiuggi” e di quanto sia forte il deficit di consapevolezza storica e democratica della classe dirigente al governo. In un qualunque paese europeo – prosegue il loro comunicato - un Ministro della difesa che avesse voluto rendere onore ai collaborazionisti dell’invasore nazista avrebbe già dovuto, a tamburo battente, presentare le proprie dimissioni.

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Il fatto che l’on. La Russa rimanga, con ogni probabilità, imperterrito nella propria carica istituzionale è la prova dello stato di allarmante e progressiva assuefazione dell’opinione pubblica e del corpo sociale e politico del nostro paese. L’on. La Russa, come Ministro della difesa, ha voluto “rendere onore” a quei fascisti italiani che scelsero di collaborare fino agli esiti estremi e più tragici con il progetto nazista di dominio sull’Europa.

Un progetto sconfitto dall’impegno degli eserciti alleati che lasciarono, solo sul suolo italiano, oltre 100.000 caduti, oltre che dalle decine di migliaia di partigiani uccisi e dai 600.000 militari italiani che preferirono la prigionia, resistendo nel lager tedeschi, proprio per non unirsi a quei fascisti di Salò che oggi il Ministro, purtroppo, vuole ancora onorare. Deve essere, al contrario, un impegno preciso quello di ricordare le vicende che sono alla base della nostra democrazia, di rispettare umanamente delle parti in causa di quel tragico evento che fu la guerra fratricida, ma senza deflettere un istante dai principi che furono alla base della scelta dopo l’8 settembre 1943.
I giovani d’Italia seppero scegliere, a Cefalonia, come sulle nostre montagne o nei lager tedeschi, la strada della libertà e della dignità, uniti in questa loro scelta di alto profilo morale con i milioni di giovani europei che combatterono quel progetto criminale che ha in Auschiwitz il proprio simbolo più tragico”

LPI-APC
ANPI
ANPPIA
 ISTITUTO “CERVI”
ISTORECO

I PARTIGIANI E IL ''CASO PELICELLI''

Che i figli di Ugo Pelicelli, comandante della 30a Brigata nera di Poviglio (e non della Gnr – Guardia nazionale Repubblicana – come erroneamente riportato sulla stampa), possano trovare i resti del loro padre, umanamente, non può che essere una buona notizia. È giusto che abbiano un luogo ove poter ricordare e piangere il loro caro. Ma se i morti, come si dice, sono tutti uguali, i vivi non lo sono. E Pelicelli – ucciso con modalità feroce, feroce come fu la repressione fascista nei venti mesi della Resistenza – da vivo era una fascista repubblicano che non si tirava indietro. Ricordiamo solo i povigliesi Rosina Mazzieri e suo marito, Pietro Dall’Argine. Rosina, morta dopo la guerra in seguito alle sevizie subite dai legionari fascisti di Poviglio, e il marito duramente percosso dagli stessi che il consigliere Filippi eleva ad eroi omerici. Se oggi si può fare l’anima bella, allora, quando la violenza era divenuta pratica quotidiana e il sangue era fatto scorrere dai fascisti senza tante remore, episodi come questo possono trovare una collocazione e un contesto. Vendetta o giustizia, che a dir si voglia, dopo quello che era accaduto. Giusto? Sbagliato? Ma era la guerra e oggi tutti sanno come la guerra trasformi gli uomini in qualcos’altro, in qualcosa che prima pensavano di non essere. La guerra è negatrice della ragione, ha detto papa Giovanni XXIII, perché produce mostri e mostruosità. E la guerra, quella guerra, non l’hanno voluta i partigiani ma i fascisti e i nazisti.
Nel reggiano, così come a livello nazionale, alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, non furono segnalati atti di particolare cruenza. E questo un significato ce l’ha: non c’erano stati quei terribili venti mesi di occupazione, di rastrellamenti, di stragi, di omicidi. Quel sovrammercato di violenza… Il popolo italiano avrebbe voluto, forse, solo girare pagina, dimenticando, probabilmente, anche come il fascismo, vent’anni prima, aveva preso il potere. Uccidendo, bruciando, confinando ed esiliando.
Sulla questione dei fascisti uccisi, il cui corpo è stato occultato, ricordiamo che il comune di Poviglio, ad esempio, ha realizzato una mostra (e un catalogo) comprendente due pannelli in cui sono elencati i fascisti uccisi e scomparsi con segnalato a fianco il ruolo che ricoprivano all’interno dell’apparato repressivo fascista. Ma come si sa, si ascolta solo ciò che si vuol sentire, si legge solo ciò che conferma tesi già scritte. E fa più notizia una non notizia che i fatti documentati. Ed è più facile giocare coi sentimenti di chi ha subito quei lutti che riflettere sull’intera vicenda.
Che i figli possano finalmente avere un luogo dove ricordare il loro padre non può che farci sentire umanamente loro vicini. Non si discute la bontà di un padre, qui si guarda al Pelicelli uomo pubblico.
Da vivo Ugo Pelicelli (od Olide Carpi, citato anche lui dalla stampa, e tanti altri) era quello che aveva voluto essere: un legionario della 30a Brigata nera, cioè un VOLONTARIO fascista.
Sarà sgradevole ricordarlo, ma qui si parla dell’8 maggio 1945, non di anni dopo. La Liberazione appena avvenuta; le ferite, le umiliazioni e i lutti subiti da tante persone ancora freschi, ancora lì a ricordare chi era in camicia nera e chi no. E chi lo era ha pagato per tutto quello che era successo. In questo conto, è vero, ci sono le persone reali, non numeri o statistiche, e dove ci sono persone reali che muoiono violentemente, con un volto che ha nome e cognome, c’è dolore e tragedia. I figli li piangono, ed è giusto che sia così. Ma chi deve raccontare la storia, pur rispettando il dolore, deve attenersi ai fatti. E i fatti sono quelli sopra ricordati.

Lo Staff di Istoreco


I fascisti e gli aviatori alleati abbattuti a Montecchio

A margine della visita a Montecchio di Chris Schmidt – figlio dell’aviatore americano Albert gravemente ferito e salvato da montecchiesi dopo la caduta del suo aereo nel marzo ’45 – il consigliere regionale Filippi ha rilasciato dichiarazioni che sembrano voler attribuire ai repubblichini il merito del salvataggio. Secondo Filippi se questo merito non è apparso è solo colpa “dell’impegno dei partigiani comunisti e dei vari istituti storici per capovolgere la verità”.

Un caso evidente di un’ossessione che ottenebra la ragione.

A Montecchio ad accorrere per primi sul luogo del disastro furono i cittadini della zona e furono loro a sottrarre i tre sopravissuti da sicura morte, entrando nell’aereo ormai in fiamme. Uno di questi, Dismo Reggiani, era un partigiano che nell’operazione perse tre dita di una mano.

Ed ancora, furono i cittadini a convincere i militi fascisti, sopraggiunti per la cattura, a trasferire gli aviatori feriti gravi in ospedale, Schmidt e Carestia. Trasferimento che avvenne con un carretto del latte. E furono ancora il prof. Dino Pampari ed i suoi collaboratori, tra cui la dott.ssa Lacerenza, recentemente scomparsa, a salvarli da probabile morte e a trattenerli in cura all’ospedale di Montecchio fino alla Liberazione, mentre i tedeschi pretendevano di prelevarli come prigionieri.Per conoscere la realtà dei fatti è, in genere, buona norma informarsi, e nel caso in questione, ad esempio, vi sono i figli del prof. Pampari, testimoni di quegli avvenimenti.

E in fatto di cattura dei prigionieri il comportamento dei fascisti repubblicani non pare fosse né improntato al fair play né rispettoso delle convenzioni internazionali.


Alcuni casi documentati:

– Il 10 novembre 1944, nella zona di Sesso atterrarono con paracadute tre aviatori americani. “Il Solco Fascista” del giorno 14 parlò di cattura di piloti, ignorando che uno di questi, Vernon Bender, era stato colpito a morte, mentre cercava di rifugiarsi in un campo, da uno dei militi accorsi per la cattura. Bender fu sepolto poi al cimitero suburbano di Reggio. Gli altri due aviatori furono nascosti e salvati da contadini ed inviati oltre le linee da gruppi partigiani.

– Nel comune di Novellara il pilota Ernest Catlin, atterrato con altri 9 compagni nella bassa, fu rincorso da due militi, addetti … alla pesca di frodo con bombe a mano, che ne lanciarono una al malcapitato ferendolo gravemente. Testimoni del fatto sono ancora vivi e vegeti. Quattro di quegli aviatori furono nascosti dagli abitanti ed inviati oltre il fronte da partigiani locali.

– Potremmo ricordare il caso di Bill Cooper, vivente e contattabile negli Stati Uniti, che, lanciatosi col paracadute su Mantova, fu fatto segno a diversi colpi d’arma da fuoco dai valorosi militi che lo attendevano a terra. Finì nel lago e, dopo la cattura, fu spogliato di tutto, scarpe comprese. E lo stesso giorno due suoi colleghi aviatori caduti a Redondesco furono uccisi al momento della cattura, mentre altri furono salvati e nascosti, sempre da contadini e resistenti.

Bisogna sottolineare che fra la popolazione erano molti più quelli che, a rischio della vita, nascondevano gli aviatori ed i prigionieri alleati evasi, piuttosto che passare dai comandi tedeschi o fascisti ad incassare le taglie: 300 lire per la segnalazione di un aereo caduto e 1800 lire per la consegna di un aviatore. Bella cifra allora!

Cosa che non fece Alfonso Paltrinieri, agricoltore di San Felice (MO), fucilato dai fascisti al Poligono di Modena il 22 febbraio 1944 per aver nascosto un aviatore inglese. Crediamo che anche questi dati stiano a dimostrare da che parte stava la popolazione italiana.

Ufficio Stampa Istoreco



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