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editoriale » Integrazione scritta con il sangue  

INTEGRAZIONE SCRITTA CON IL SANGUE
di Flavio Novara


Alcuni giorni fa Nosheen Butt, una ragazza pachistana residente a Novi di Modena, è stata ferita in modo grave dal padre Hamad Khan e dal fratello perchè rifiutava il matrimonio combinato con un connazionale. Pare un cugino. La madre accorsa in sua difesa e' stata a sua volta, uccisa con una pietra dal padre. Una questione di pura violenza familiare o totale e reale mancanza d'integrazione?

Il dibatto intorno a questo episodio di violenza si è subito scatenato lasciando emergere nei luoghi di lavoro come dai politici locali e nazionali, ogni diversa opinione. Come previsto, subito si è rincorsi ad accusare la religione islamica come causa principale di questa azione.

Certo il papà di  Nosheen aveva una moschea “abusiva”, come definita dal Consigliere regionale del Popolo della Libertà Andrea Leoni, già autore di numerose interrogazioni sul problema delle moschee non autorizzate “cui il Sindaco, pur sapendo, ha palesemente chiuso un occhio” ma, come racconta Mohammed Arif, vicino di casa, questa violenza ”non ha nessun legame con l’Islam. Nosheen non era obbligata a sposarsi. Il padre doveva lasciarla libera di decidere».

Quanto avvenuto a Novi e precedentemente a Brescia dove un altra ragazza era stata uccisa perchè non voleva lasciare il suo ragazzo italiano, identificano nella loro tragedia, una questione culturale e sociale da pendere seriamente in considerazione.  Non è come definito dai consiglieri Leoni o Manfredini della Lega Nord: “un episodio che conferma la drammatica diffusione, anche tra gli islamici apparentemente integrati nella nostra realtà, dell’ideologia integralista e del fanatismo religioso, di un modello culturale e sociale di matrice islamica totalmente incompatibile con la nostra società, che spesso vede nelle finte moschee un luogo di propaganda” ma, proprio il suo diretto contrario.
Com'è possibile non comprendere cosa ha significato per quelle donne, schierarsi contro una consuetudine, ad una prassi sociale, quello del matrimonio comandato, che affonda le sue radici, non nel Corano ma in una cultura profondamente differente dalla nostra. Una prassi sociale, che in passato è appartenuta anche alla cultura dei paesi a prevalenza cattolica, da cui siamo riusciti a liberaci con enorme sacrificio e grazie ad una vera rivoluzione culturale, liberale ed illuminista, nonostante la violenta reazione della santa inquisizione.
Non è stato facile liberarci dal giogo del dominio della chiesa che ancora oggi, tanto dispiace al nostro ordine ecclesiastico.
Quando gli esponenti di destra a gran voce acclamano alla mancata integrazione dovrebbero ricordare che quella madre si è fatta uccidere per difendere il volere della figlia. Altro sarebbe stato l'esito se fossero restati nel loro paese.
L'integrazione culturale non la si può ottenere attraverso un decreto legge che vieta l'utilizzo del velo o della costruzione di moschee, è un processo lento fatto di reciproca contaminazione. Di confronto continuo tra uomini diversi che senza pretese dominanti sappiano riconoscere il bene e il male presente in ogni cultura. Nessuna esclusa.
Come possiamo volgarmente definire tutti “islamici integralisti” solo perchè vestono diverso da noi o perchè hanno usi e costumi differenti dai nostri?
Come possiamo non comprendere che oggi, in particolare le seconde e le terze generazioni di quegli immigrati, non hanno più i medesimi riferimenti culturali. Non si sentono più del paese di origine dei propri avi e contemporaneamente non vengono accettati come “nazionali” dal paese in cui sono nati. Un atteggiamento questo che li costringerà irrimediabilmente, a rinchiudersi nei loro quartiere ghetto, pronti a difendersi e a rivendicare il diritto di poter vivere come tutti gli italiani onesti.
Gli altri, anche se di colore e lingua diversa o uguale alla nostra, hanno tutti la medesima faccia e come tali debbono essere trattati.
Per questo ritengo ancor più ipocrita l'atteggiamento del ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna che forse anche in calo di consensi, si è dichiarata parte civile nel processo contro i familiari di Nosheen. Una posizione volutamente strumentale e con finalità culturali razziste dato che il medesimo atteggiamento non è mai stato assunto nei confronti di tutte quelle donne italiane,  quattro donne al mese, che in questo paese muoiono aggredite da uomini bianchi e cristiani. E non basta a giustificarla, l'appello alla denuncia “perché l'Italia rifiuta e respinge con decisione qualunque forma di prevaricazione degli uomini sulle donne”.

Il nostro principale errore sta proprio è soprattutto credere che attraverso la religione mussulmana queste comunità, cerchino di cambiare i nostri sistemi. Se chiedono di costruire delle moschee nei nostri territori è forse proprio perchè in questo paese si trovano a loro agio e non hanno intenzione di andarsene. Una nazione la nostra, dove spesso, a differenza dei loro paesi d'origine, la libertà di culto e d'espressione dovrebbe essere tutelata.
Prima di assumere atteggiamenti e politiche di matrice razzista, “dovremmo innanzitutto comprendere e decidere -  come espresso da Tariq Ramadan islamologo svizzero - ciò che volgiamo proteggere delle nostre nazioni e culture. Soprattutto per quanto riguarda la democrazia e la divisione laica delle stato dalla religione”.  Una fondamentale divisione che è sempre pronta ad azzerarsi nel momento in cui strumentalmente è necessario alimentare la guerra contro il diverso e il più debole. Non ricordando, inoltre, che è stata proprio la mancata democrazia delle dittature laiche, che ha spesso costretto e condotto le nazioni arabe ad utilizzare la religione per alimentare una necessaria lotta di liberazione.

10/10/10
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